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19.8.20

Lo sguardo digitale e il finish dello spettatore

Postspettatorialità di Mario Tirino è un vasto, esaustivo studio sull’esperienza spettatoriale e sulle sue trasformazioni.

Un signore ben vestito passeggia per strada. Si accorge di un cineoperatore che lo sta riprendendo – forse per caso, forse volutamente. La cosa lo irrita sensibilmente, tanto che – e noi vediamo tutta la sequenza in "soggettiva" dal punto di vista dell'operatore, quindi attraverso l'occhio della cinepresa – si avvicina protestando sempre di più, fino a riempire lo schermo, apre la bocca, e – stacco in "oggettiva" – vediamo la sua bocca riempire lo schermo, e divorare cinepresa e cineoperatore. Si tratta di The Big Swallow (Williamson, 1901), un breve film delle origini che dura circa un minuto, che riassume, da molti punti di vista, la natura del cinema, del suo rapporto con il reale, dello statuto del regista e dello spettatore. 

Ritroveremo peraltro una dimensione simile, forse ancor più inclusiva, come fanno notare Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca (2019: 113-123), agli albori degli anni Ottanta del XX secolo, in uno dei capolavori di David Cronenberg, Videodrome (1982), anni che sono anche uno dei momenti della trasformazione dell'esperienza filmica e della riarticolazione del consumo di televisione, grazie alla messa sul mercato dei primi vcr Betamax e vhs, come scrive Mario Tirino in Postspettatorialità (2020: 151), il vasto, esaustivo studio che dedica alla centralità dell'esperienza spettatoriale e delle sue trasformazioni dalla nascita dei dispositivi audiovisivi ad oggi.

Il film di Williamson stimola molte riflessioni, oltre quelle elaborate da Attimonelli e Susca nel loro volume su Black Mirror, perché fa sorgere spontanea una domanda: chi ha ripreso la seconda sequenza di cui è composta la scena? Un altro operatore? Un passante? Il regista stesso? Certo, ragionando in termini profani, la risposta può essere semplice, banale: c'è un secondo operatore che riprende, dall'esterno, la scena. Ma la visione del breve filmato, il suo montaggio – elementare: due sequenze cucite l'una all'altra con uno stacco secco – ha un altro impatto sullo spettatore: come in un'immagine di Maurits Escher, i piani si confondono, si rimescolano, aprono una smagliatura, un varco nella membrana fra il reale e l'immaginazione, della quotidianità, e fanno intravvedere dimensioni altre, che esprimono un immaginario con caratteristiche almeno in parte nuove rispetto a quelli delle epoche precedenti al cinema, o meglio che finalmente riescono ad esprimere con una straordinaria promessa di verità, di realtà le immagini e i sogni più visionari, rispondendo a quella "fame di immagini" che aveva percorso tutto l'Ottocento, dal romanzo gotico, al racconto fantastico, alle stampe, alle illustrazioni, ai panorami (Abruzzese, 2007; Brancato, 2003: 30; Fattori L., 2019; Schivelbusch, 1988), a ciò che appartiene ai regimi dell'immaginazione che ci proiettano al di là del reale, nei mondi del mito e del sogno: come scrive Lucilla Albano (1992), il cinema è vero, e nello stesso tempo non è vero, come il sogno

Dobbiamo postulare uno sguardo esterno, onnisciente, demiurgico, quasi, che governa la rete di relazioni che sono sempre implicate in un audiovisivo dalla "idea cinematografica" (Field, 1991) che lo ha ispirato all'atto del suo consumo finale da parte dello spettatore – uno sguardo sociale, culturale, parte delle profonde trasformazioni che colpivano la società occidentale nel passaggio dal XIX secolo al XX? 

Forse più pragmaticamente lo spettro di rimbalzi e riflessi che ogni film produce all'indietro sulla sua intera catena produttiva: la straordinaria capacità del "dispositivo cinematografico" (Baudry, 2017) di produrre Mito, immaginario, narrazione, e di riflettere la materia profonda di cui è fatto il cinema, il suo legame genetico con la forma che ha preso la Modernità in quel periodo.

Ancora, dobbiamo ricordare il lavoro del montaggio, la fase finale della realizzazione del film, quella che trasformerà il materiale filmografico in filmofanico: tutto ciò che viene usato e eseguito durante il montaggio in ciò che lo spettatore, seduto in sala, vedrà apparire sullo schermo, quella in cui si assembla il materiale grezzo delle riprese, lo si organizza, e gli si dà, con una operazione fra le più artificiose, la forma finale, sbriciolando le normali modalità della percezione dell'occhio umano, lineari e continue, per ricostruirle grazie ad una visione nuova al servizio di una rappresentazione piena di senso.

Dobbiamo altresì postulare uno spettatore – oggi un "postspettatore" – come fece Williamson in The Big Swallow, che gioca il ruolo cruciale di interprete, di traduttore del discorso cui assiste in un racconto, in un blocco di senso. 

Un soggetto che non solo sia in grado di decifrare il montato, come hanno dovuto imparare a fare i primi spettatori, e, oggi, di incorporare l'intera esperienza cinematografica e intervenire su questa attraverso la sua sensibilità, il suo sapere – ed è questo uno dei cardini del discorso di Tirino – su una fruizione sempre più personalizzata e dimensionata su di sé, fatta di scelta dei contenuti come di uso delle tecnologie della riproduzione, portando ai suoi esiti finali l'incantesimo di Williamson, il sortilegio di The Big Swallow

Una sorta di "ipermontaggio" che si estenda e incorpori gli spazi e le realzioni fra i vari prodotti e li assembli fra loro in una continuity personale, individualizzata, originale e autonoma, e organizzi l'intero materiale mediale in un universo dotato di una solida coerenza interna, senza rinunciare – anzi! – alla condivisione e al dialogo con gli altri fruitori. Un immenso spazio filmofanico, intrecciato e interconnesso, abitato dal postspettatore, collocato al centro di un cosmo narrativo iperdimensionale fondato sulle immagini in movimento. 

Abbiamo assistito quindi – nello spazio di poco più di un secolo – a un processo in cui lo spettatore è passato da una fruizione sostanzialmente passiva – basti pensare allo shock provato da coloro che assistettero a uno dei primi film dei fratelli Lumière, L'arrivée d'un train à La Ciotat (1896).

Se ci si riflette, sono bastati cinque anni, quelli che passano dal 1896 del cortometraggio dei Lumière al film di Williamson, perché il cinematografo si trasformi in cinema (Frezza, 1996), perché cioè un dispositivo tecnologico di riproduzione della realtà si trasformi in una delle macchine più potenti di riepilogo e riproduzione di immaginari, una delle matrici essenziali per l'affermazione di un immaginario pienamente collettivo (Grassi, 2003).

Mario Tirino prova – con successo – a districare questo groviglio, una matassa composta da flussi intrecciati: quello dell'evoluzione delle tecnologie della riproduzione audiovisiva, quello dei mutamenti nell'organizzazione della filiera produttivo-distributiva, quello dei discorsi sul cinema e sul post-cinema, quello delle trasformazioni nella figura dello spettatore, il focus centrale del suo lavoro.

Tirino parte, citando Richard Grusin, da un concetto essenziale, quello di mediashock, il vero e proprio trauma innescato da un medium nel momento in cui appare sulla scena della nostra vita quotidiana, o conosce modifiche strutturali. 

E, andando oltre il concetto così come definito dal mediologo americano, Tirino scrive, per definire meglio il punto che gli interessa, 

… il modo in cui Grusin definisce il concetto di mediashock, soprattutto nelle accezioni 2) e 3), risulta molto interessante per lo studio socioculturale del medium cinematografico in chiave diacronica. Tra le teorie sociologiche e mediologiche del cinema, infatti, possiamo rinvenire sia contributi dedicati allo studio degli influssi del cinema sul sensorio dello spettatore, sia contributi centrati sulla capacità del medium cinematografico di riconfigurare i modi collettivi di vedere, sentire, concepire il mondo, spesso in contrasto con norme e valori sociali dominanti. A proposito della legittimità di una tale operazione – collegare il concetto di ‘mediashock' alla storia delle teorie del cinema – conviene ricordare come sia lo stesso Grusin, a disegnare la genealogia di tale concetto ricorrendo agli scritti di studiosi come Walter Benjamin e Marshall McLuhan (Tirino, 2020: 30). 

Il ricercatore sannita, focalizzandosi su due degli elementi che nel discorso di Grusin caratterizzano i mediashock, coglie un punto essenziale: è nella natura dei media, nel loro articolare il rapporto col fruitore, modificarne il modo in cui costui percepisce e interviene sulla realtà circostante, oltre la sua relazione con i media stessi.

Per Tirino i media audiovisivi incarnano e promuovono una precisa "forma culturale", e fra le varie definizioni del concetto che sono state proposte, sceglie quello adottato dal mediologo David Chaney, per cui la una forma culturale specifica è

… composta da tre dimensioni interdipendenti: 1) l'organizzazione sociale della produzione e distribuzione dei fenomeni culturali (incluse le caratteristiche specifiche della tecnologia adoperata); 2) i temi, gli stili comunicativi e l'organizzazione narrativa; 3) l'interazione partecipativa tra produttori, performer e audience (Tirino, 2020: 40).

I media sono parte integrante del rapporto di co-produzione fra individuo e società, e da oltre un secolo ne costituiscono uno dei pilastri, una delle componenti strutturali, sono uno dei poli del continuo processo di riarticolazione del modo in cui percepiamo la realtà, e organizziamo la nostra vita quotidiana, attraverso le metamorfosi, i cambi di passo, le trasmutazioni che hanno vissuto, a partire dalla struttura degli apparati, dalle modalità con cui organizzano le loro narrazioni, dai temi di queste, dalla relazione che intrattengono con i consumatori.

L'esperienza del cinema è paradigmatica, innervando profondamente l'immaginario della modernità novecentesca non solo, ma per il suo rapporto necessario con la società industriale. Come ricorda Tirino citando Alberto Abruzzese (Tirino, 2020: 31), "Il cinema è l'arte della fabbrica nel senso che racchiude in sé – nella sua stessa struttura iniziale – le forme e l'ideologia della moderna civiltà industriale" (Abruzzese, 1973: 82).

Non solo. I contributi di Georg Simmel (2005) – anche se indiretti – di Siegfried Kracauer (1996), di Wolfgang Schivelbusch 1988 ci inducono ad aggiungere la metropoli e i mezzi di trasporto (il treno, l'automobile, i mezzi urbani) alla fabbrica come elementi alla base della formazione del nuovo sguardo con cui l'abitante del XX secolo partecipa al mondo sociale, al suo farsi. È in gioco quel ricomporsi del "sensorio" su basi nuove di cui scrive Tirino citando Grusin, che converge nella comprensione delle sequenze di immagini che scorrono sullo schermo cinematografico. Gli scorci continuamente mutevoli degli spazi metropolitani, percepiti sia passeggiando sia attraverso i finestrini di tram e filobus, lo scorrere del paesaggio sperimentato dai viaggiatori attraverso i finestrini dei treni e delle automobili, l'alternarsi di luci e buio che colpisce la vista del viaggiatore in metropolitana producono una trasformazione nelle modalità di percezione visiva che investe l'intero corpo dell'uomo metropolitano, e gli rende possibile l'esperienza della visione cinematografica, superando il trauma vissuto dagli spettatori del film dei Lumière citato più sopra, e aprendoli al godimento delle forme di narrazione e dell'immaginario evocati e offerti dal cinema.

È essenziale però evitare un equivoco, indotto da parte della letteratura ispirata al "determinismo tecnologico": l'idea che lo spettatore cinematografico sia "prodotto" dal cinema – e per omologia dalla metropoli, dai mezzi di trasporto e dalla fabbrica – ne subisca gli effetti, e non partecipi in nessun modo alla configurazione dei dispositivi mediali connessi.

In realtà, il fruitore è parte integrante del processo. Se la esistenza del mondo sociale è frutto di un processo, di una dialettica continui di co-produzione della realtà che coinvolge i singoli individui e le strutture della società, da cui nasce il senso che diamo alla realtà, questo vale pienamente anche per il rapporto che intratteniamo con i media, per la relazione che corre fra noi individui della modernità e i mezzi di comunicazione, nel loro lavoro di raccolta, produzione, trasmissione di significati e di simboli, come ci invita a riflettere la fenomenologia del media – cui Mario Tirino fa riferimento approfondendone le argomentazioni e le implicazioni (Tirino, 2020: 159-173).

La relazione che secondo i fenomenologi si instaura sempre fra il soggetto di esperienza e il mondo, e che è alla radice della creazione dei sistemi di simboli e di sensi in cui siamo immersi, è anche – e qui le argomentazioni sviluppate in Postspettatorialità diventano cruciali – alla base dell'uso concreto che intratteniamo con gli apparati e i dispositivi di produzione, distribuzione, riproduzione e consumo mediale di immaginario, fino alle concrete tecnologie che fanno parte del panorama, privato e pubblico, della vita quotidiana, nel loro intreccio profondo, nucleare, con le trasformazioni delle soggettività sociali che hanno abitato il Novecento e questo scorcio di Duemila.

Così la storia dei media audiovisivi è una successione di mediashock, che hanno segnato i principali passaggi di stato nel rapporto fra fruitore e tecnologie della visione. Mettendo da parte i discorsi sui contenuti dei media – narrativa, spettacolo, cronaca, documentario, e altro – e concentrandoci sulle offerte della tecnologia e sugli usi sociali dei media, credo che possiamo dividere la storia del cinema e dei media visivi successivi in due grandi fasi: una prima analogica (dalle riprese lineari al montaggio; dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore), una seconda magnetico-digitale (che copre la fase che va dagli inizi della televisione ad oggi).

La sostanziale frattura fra le due fasi è legata per me alla esaltazione dell'intervento del fruitore, sempre più decisiva e articolata.

Se si vuole, il primo momento di passaggio verso quella dimensione che poi avremmo definito come "home video" è – anche se di poco – sicuramente precedente all'avvento della riproduzione elettronica. Con l'introduzione, nel 1965, della pellicola nel formato da super 8 mm divenne possibile non solo girare filmati amatoriali e proiettarli in casa, ma anche noleggiare per la proiezione casalinga i film prodotti per le sale cinematografiche ridotti in "Super8", replicando, mimando le condizioni del grande cinema per proiezioni intime, "personalizzate", fra la festa privata e il cineclub, indice di un bisogno che con l'introduzione del nastro magnetico (vhs e Betamax) diventò rapidamente pratica comune:

Soltanto pochi privilegiati, in grado di acquistare e far funzionare sistemi di proiezione domestica delle pellicole (in formati come il Super8 o il 16mm), erano in grado di intervenire sul contenuto filmico, anche se in maniera molto limitata. È con l'avvento del VCR che i pubblici possono trasformare flussi di dati video in copie fisiche, che oltretutto, grazie al controllo remoto, possono essere manipolate in vario modo (stop, rewind e così via) (Tirino, 2020: 343).

Il salto verso il digitale è prossimo. È questione, in un certo senso, di puro e semplice sviluppo della ricerca tecnologica – che si innesta sulle e incontra le trasformazioni identitarie implicate nel procedere della Modernità matura. Arriva, e produce un ulteriore mediashock. Quello che trasforma definitivamente lo spettatore in postspettatore. In grado, grazie alla tecnologia disponibile al consumo finale e alla sensibilità del consumatore di rimodellare completamente il rapporto fra produzione e consumo, collettivo e individuale.

Ed è la stessa industria, rinunciando alla difesa a oltranza di marchi, copyright e diritti d'autore, ad aprire la strada a questa rivoluzione copernicana: a pochi anni dalla messa in vendita del primo compact-disc, il 1982, all'inizio degli anni Novanta la Sony mette sul mercato il primo masterizzatore cd, rendendo possibile (e legale) la replica casalinga dei cd audio, portando al loro limite estremo le riflessioni di Walter Benjamin sulla "riproducibilità tecnica dell'opera d'arte", e spostando le discussioni e le polemiche sulla "morte dell'arte" sul fronte della morte dell'aura del suono del disco in vinile ucciso dalla "artificiosità" del suono digitale, come se il suono (analogico) del long-playing non sia a sua volta il risultato di un processo (meccanico) di codifica-decodifica. Risvolti – inintenzionali – dei fenomeni di rimediazione. Possiamo quindi ipotizzare qui l'origine della trasformazione dello spettatore in autore multimediale, per poi estendere la storia delle sue mutazioni a tutto lo spazio che collega le prime proiezioni casalinghe in super8 fino, come sintetizza bene Simona Castellano nel riflettere sul saggio di Tirino, a comprendere tutte le 

… dimensioni che attraversano il contemporaneo, all'addomesticamento dei mezzi digitali e alla dimensione domestica in cui l'esperienza filmica – sebbene in una continuità con le forme della spettatorialità classica – si cala in un contesto ridisegnato da nuovi sistemi produttivi, distributivi (si pensi a tal proposito a Netflix e ai sistemi OTT) e performativi e nuove tecnologie e per questa ragione viene riscritta secondo modalità che differiscono dall'esperienza di sala (Castellano, 2020: 269),

temi che fra l'altro il ricercatore salernitano aveva già esplorato in profondità in saggi precedenti (2016). Così, grazie all'affermazione delle tecnologie digitali e alle metamorfosi del soggetto tardomoderno, si realizza la dimensione del postcinema, come ricorda sempre Castellano (2020: 267), completando e rendendo concreta, praticata pienamente la funzione dello spettatore come co-autore, intuita da Williamson nel 1901 col suo breve film: lo sguardo esterno che osserva il passaggio dalla soggettiva del primo cineoperatore che viene inghiottito dal passante inferocito, che noi osserviamo attraverso l'occhio "oggettivo" della seconda cinepresa, diventa lo sguardo congiunto del regista e dello spettatore che collaborano e partecipano insieme al farsi del racconto cinematografico, e che si completa nell'oggi con un'azione che investe l'intero dispositivo post e cinematografico dal lato del finish del consumatore, scardinando l'ordine tradizionale della visione e imponendone uno del tutto nuovo.

Bibliografia

  • Abruzzese A., Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2003.
  • Abruzzese, A., La grande scimmia Mostri, vampiri, automi, mutanti, Sossella, Roma, 2007.
  • Albano L., La caverna dei giganti, Pratiche, Parma, 1992.
  • Attimonelli C., Susca V., Un oscuro riflettere. Black Mirror e l'aurora digitale, Mimesis, Milano – Udine, 2020.
  • Baudry J.-L., Il dispositivo Cinema, media, soggettività, La scuola, Brescia, 2017.
  • Brancato S., La città delle luci Itinerari per una storia sociale del cinema, Carocci, Roma, 2003.
  • Castellano S., Verso una definizione di postspettatorialità: come cambia l'esperienza filmica nel postcinema, in "Im@go A Journal of the Social Imaginary", The Imaginaries of Nature and its Effects on Reality, 15/2020, https://cab.unime.it/journals/index.php/IMAGO/issue/viewIssue/223/pdf_17 retrieved on 08/11/2020.
  • Fattori L., Panoramicità; relazioni mediali fra cinema e ferrovia, Relazione presentata al Convegno "Gli indistinti confini. Transmedialità nei processi culturali e comunicativi e transdisciplinarietà nelle discipline sociologiche", Pic-AIS, Bologna, Palazzo Ercolani, 13/14 giugno 2019.
  • Field S., La sceneggiatura, Lupetti, Milano, 1991.
  • Frezza G., Cinematografo e cinema Dinamiche di un processo culturale, Cosmopoli, Bologna, 1996.
  • Grassi V., Immaginario, in Abruzzese, 2003.
  • Kracauer S., La massa come ornamento, Prismi, Napoli, 1996.
  • Schivelbusch W., Storia dei viaggi in ferrovia, Einaudi, Torino, 1988.
  • Simmel G., La metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 2005.
  • Tirino M., Tecnoimmaginari postumani, in "Segnocinema", n. 202, novembre
  • – dicembre 2016.
  • Tirino M., Postspettatorialità L'esperienza del cinema nell'era digitale, Meltemi, Milano, 2020.

Filmografia

  • Cronenberg D., Videodrome, Usa, 1983.
  • Williamson J., The Big Swallow, Gb, 1901.
  • Lumière A., L., L'arrivée d'un train à La Ciotat, Fr, 1896.