12.1.23

Storia emozionale dei robot

Macchine, umani, ibridi

Concludiamo dunque coraggiosamente
che l’uomo è una macchina, e che
in tutto l’universo c’è una sola sostanza
diversamente modificata.

(Julien Offroy de la Mettrie, 1973)

L’automa è un ibrido semplicemente perché,
pur essendo una macchina, e della macchina
possedendo le potenzialità produttive,
non è capace di funzionare come una macchina

(Alberto Abruzzese, 2007)

“Le soldat-machine est aveugle, c’est son maître qui le commande et qui voit pour lui. Guerrier invulnérable, sans peur et sans pitié, ce combattant d’acier serait un adversaire des plus redoutables”  (in Mabille 1962). Così, come riporta il surrealista francese Pierre Mabille nel suo Le Miroir du Merveilleux pubblicato originariamente nel 1940, si poteva leggere il 28 (in realtà, il 27) febbraio del 1939 sul quotidiano francese “Paris-Midi” in una corrispondenza dalla Esposizione internazionale di New York in cui erano esibiti alcuni robot.


Una novità assoluta per l’epoca, che nel libro di Mabille è inserita all’interno di una “storia” degli esseri artificiali, delle copie dell’umano dal Golem (Meyrink 2019), alla “Creatura” del dottor Frankenstein, naturalmente (Shelley 2016), agli zombies, alle “statue-macchine”, come le definisce il surrealista, cioè gli automi come quelli del famoso artigiano Jacques de Vaucanson e i robot esposti a New York. 

Dal mito alla realtà, quindi: dalla vita infusa magicamente, necromanticamente, a quella prodotta dall'”invention de l’électricité et le perfectionnement des techniques” (Mabille 1962: 99). Il punto di svolta dall’automa al robot rimane il Frankenstein di Mary Shelley, come ci ricordano i titoli di testa di Westworld Dove tutto è concesso (Nolan, Loy 2016 –), la serie tv al centro del bel libro di Emanuela Piga Bruni La macchina fragile L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (Piga Bruni 2022), che dell’evoluzione dei nostri doppi già dal titolo coglie il passaggio di stato successivo, quello dalla elettromeccanica alla digitalizazzione


La storia dei “doppi” dell’umano è lunga. Risale all’antichità greca, almeno, e – in forma non personalizzata – agli albori dell’umanità.

Si è poi trasformata in elemento mitico (e mitopoietico) a partire dalla leggenda di Pigmalione, per poi abitare nel folklore – figura inquietante ed oscura – per secoli, e poi acquistare la sua definitiva identità artificiale con la Modernità, prima come automa (Ceserani 1969; Cohen 1981; Bredekamp 1996), poi come robot (Wiener, 1966), poi come cyborg androide, colonizzando l’immaginario sia sul piano del dibattito tecnologico e scientifico quanto su quello della narrazione, acquistando via via sempre maggiore versatilità in una prima fase (quella “meccanica”, potremmo dire), umanità in una seconda (quella “digitale”), in parallelo al passaggio dalla modernità industriale al regime della virtualità e del digitale.

Quindi, da “Le macchine possono pensare?”, la domanda che si pose uno dei più grandi – e maltrattati – geni del Novecento, Alan Turing (1950), a “Le macchine possono sentire?”, nel senso di provare emozioni, soffrire, gioire, la domanda sottesa a La macchina fragile, il passo – un vero e proprio salto di livello – è stato lungo. Ma era un passaggio di stato necessario. Dettato dal cambiamento dei nostri rapposti col mondo sociale, dell’idea che abbiamo di coscienza, e quindi del mutamento dell’atteggiamento che abbiamo verso le macchine, di cui quelle antropomorfe – seppur ancora principalmente abitanti dei mondi della fiction – sono l’espressione più compiuta. Dei nostri entusiasmi, come dei nostri terrori. E, in definitiva, della domanda fondamentale che ci poniamo, quella sullo statuto della realtà, il necessario termine di confronto con la consapevolezza che abbiamo di noi stessi: “L’interrogativo di Philip K. Dick su cosa è umano discende direttamente dalla più nota delle sue ossessioni, «cosa è reale?»”  (Piga Bruni 2022: 30).

E sono un perfetto interlocutore in cui specchiarci, e su cui scaricare la responsabilità di assumere su di sé i nostri dubbi, per trovare per noi risposte ai nostri dilemmi, ai conflitti sulla natura della coscienza, sullo statuto del , sulle incrinature e le fratture che ha subito negli ultimi decenni la nostra sicurezza ontologica.

La storia dei simulacri dell’umano è lunga, risale almeno al mito di Pigmalione, anche se solo con la modernità acquista caratteri che li emancipano dalla logica del magico e li attribuiscono alla dimensione della loro realizzazione, prima come automi, poi come robot, e ancora cyborg androidi, fino ad arrivare alla perfezione dei “replicanti” di Blade Runner (Scott, 1982) e ai “residenti” di Westworld Dove tutto è concesso (Nolan, Joy, 2016 –), l’adattamento contemporaneo del primo lungometraggio di Michael Crichton, Westworld (1973), in italiano Il mondo dei robot.

Ed è proprio lo show di Jonathan Nolan e Lisa Joy il fulcro del lavoro di Piga Bruni, quello a cui, giustamente, viene dedicato più spazio nella articolazione del discorso imbastito dalla studiosa, quello in cui si dispiega la ricchezza della riflessione sullo “stato dell’arte” degli interrogativi sulla

nostra identità, sullo statuto della coscienza – e dell’inconscio, peraltro – come costrutto sociale.

I “residenti” di Westworld, da ultima versione dei simulacri dell’umano – la più perfetta, la più indistinguibile da noi – concludono il percorso iniziato da Pigmalione e si propongono quasi come una protesi che colloca all’esterno del nostro corpo e della nostra mente uno dei due poli fra cui si svolge il nostro continuo dialogo interiore, come in William James o in Herbert George Mead, o, per certi versi, in Ervin Goffman.


Costruito finalmente il simbionte perfetto, fisicamente indistinguibile dall’umano “nato d’uomo e di donna”, qui abbiamo, dopo i formidabili prototipi di Blade Runner, superbe entità che ci uguagliano anche nell’interiorità – fino a interrogarsi sulla propria genesi, sul proprio destino, su questioni come il comflitto fra predestinazione e libero arbitrio. Quasi come se, dopo avergli delegato – come in Karel Čapek o in Isaac Asimov e in tutta la science fiction che narra di robot, fino a Philip K. Dick – il lavoro “sporco”, quello in fabbrica o sui campi di battaglia, o ancora nello spazio, la nostra specie, ormai stanca, al crepuscolo dell’umano, in attesa di essere sostituita da una postumanità ancora a venire, abbia deciso di passargli il testimone della ricerca filosofica, o sociologica, quella più astratta, che rischia di sfociare nella metafisica o nel trascendente.

Per tracciare nel dettaglio la sua mappa, Emanuela Piga Bruni procede con precisione (Piga Bruni 2022: 20 e segg.), segnando tutte le tappe cruciali che nel tempo – specie nel moderno – hanno segnato l’evoluzione dei nostri doppi: dall’homunculs rinascimentale, passando necessariamente per la “Creatura” del dottor Frankenstein, ai robot di Karel Čapek (2015. Pubblicato nel 1920, il romanzo in cui vengono introdotti i veri capostipiti della specie nell’era industriale, i “simulacri del secondo ordine” secondo Jean Baudrillard [1976]), ai robot positronici di Isaac Asimov “nati” nel 1942, alle varie declinazioni che gli ha dato Dick, arrivando ai nostri giorni con i superbi, perfetti cyborg figli della fantasia dello stesso Dick (come in Blade Runner) e di Michael Crichton (i “residenti” di Westworld), dove però, appunto, “l’adattamento introduce nuovi temi e significati” (Piga Bruni 2022: 65). 


Questo intrecciarsi di opere narrative e di loro riscritture nel tempo è forse il nucleo profondo delle riflessioni della ricercatrice (e in questo caso di Christiano Presutti [2019] che arricchisce il libro riproponendo un suo bel saggio sull’«inconscio artificiale» [Piga Bruni 2022: 147-158] scritto a 4 mani con Christiano Presutti), perché mostra in pieno come l’immaginario sugli “umani artificiali” sia mutato nel tempo, spostandosi dalla gabbia di una dimensione puramente macchinica, di una “riproducibilità tecnica” connessa solamente al corporeo, alla meccanica dei corpi, all’apertura verso il riconoscimento di una possibile “meccanica delle passioni”, per dirla con Alain Ehrenberg (2019), riconoscendone la dimensione individualizzante.

Così, se dal romanzo di Philip Dick Il cacciatore di androidi (1995, in originale Do Androids Dream of Electric Sheep?) che è del 1968 Ridley Scott ha tratto nel 1982 il gigantesco Blade Runner, tradendo almeno in parte la diffidenza profonda degli scrittori dell’epoca nei confronti dei robot ma salcandone la profonda visionarietà, dal film di uno scrittore tutto sommato mediocre come Crichton,  la sensibilità contemporanea, già per certi versi postumana, se si vuole, di Jonathan Nolan e Lisa Joy ha ricavato Westworld Dove tutto è concesso, una delle serie tv più pregiate e complesse di sempre, almeno per le prime tre stagioni.


A seguirne bene il dipanarsi delle vicende, ci si rende conto di come non venga messo in scena soltanto la progressiva presa di coscienza degli androidi protagonisti della storia, quanto l’acquisizione della capacità di costruire materialmente la realtà, di modificarla, rendendo letterale ciò che è figurato nel linguaggio della fenomenologia: la “costruzione sociale della realtà” diventa un fatto concreto. Una esemplificazione autoevidente di ciò che sempre Baudrillard intende con “terzo ordine di simulacri”: l’ordine del modello, il passaggio dall’analogico al digitale.

E succede che lo sviluppo di questa capacità è parallelo a una trasformazione più profonda, più radicale: questi esseri artificiali, macchine in sostanza, si emancipano dalle routine digitali che li animano e cominciano a provare emozioni, ad avere sentimentipassioni.

Diventano sempre meno distinguibili dall’umano, mostrando tutte le fragilità di cui siamo fatti anche noi, a partire da quelle passioni fatte di “gioie violente” e delle loro “violente fini”, come scriveva William Shakespeare alla fine del XVI secolo nel suo Romeo e Giulietta.

Bibliografia

  • Abruzzese A., La grande scimmia, Sossella, Roma, 2007.
  • Baudrillard J., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1976.
  • Boi L., D’Intino F., Distefano G.V. (a cura di), Immaginare l’impossibile: trame della creatività tra letteratura e scienza, in “Between”, V.9, n. 17, maggio 2019.
  • Bredekamp H., Nostalgia dell’antico e fascino della macchina, il Saggiatore, Milano, 1996.
  • Čapek K., R.U.R. Rossum’s Universal Robots, Marsilio, Venezia, 2015.
  • Ceserani G.P., I falsi Adami, Feltrinelli, Milano, 1969.
  • Cohen J., I ROBOT nel mito e nella scienza, De Donato, Bari, 1981.
  • Dick P.K., Il cacciatore di androidi, Nord, Milano, 1995.
  • Ehrenberg A., La meccanica delle passioni Cervello, comportamento, società, Einaudi, Torino, 2018.
  • Mabille P., Le Miroir du Merveilleux, Les Editions du Minuit, Paris, 1962.
  • de la Mettrie J.O., L’uomo macchina, Feltrinelli, Milano, 1973.
  • Meyrink G., Il Golem, Bompiani, Milano, 2019.
  • Piga Bruni E., Presutti C., L’umano nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: l’inconscio artificiale nella fantascienza, in L. Boi, F. D’Intino, G.V. Distefano (a cura di). 2019. 
  • Shelley M., Frankenstein o il moderno Prometeo, Einaudi, Torino, 2016.
  • Turing A., Computing Machinery and Intelligence, “Mind”, Volume LIX, Issue 236, October 1950 
  • Wiener N., Introduzione alla cibernetica, Boringhieri, Torino, 1966.

Filmografia

  • Blade Runner, di Ridley Scott, Usa, 1982.
  • Il mondo dei robot (Westworld), di Michael Crichton, Usa, 1973.
  • Westworld Dove tutto è concesso, di Jonathan Nolan e Lisa Joy, Usa, 2016 –.