30.9.16

L’immagine neuronale dell’uomo: Disney e il contributo delle scienze sociali

Identità, Neuroscienze, Sociologia della conoscenza, Immaginario, Media

Inside Out

Inside out, film della Disney-Pixar uscito nelle sale italiane nel corso di quest’anno, è il primo esempio di narrazione filmica che ha come protagoniste assolute le emozioni. In termini sociologici questo film può essere per molti versi considerato la trasposizione cinematografica di una specifica immagine dell’uomo di derivazione neuroscientifica che, negli anni più recenti, si è andata diffondendo con sempre maggior intensità nell’ambito della nostra cultura: l’uomo neuronale.
Negli ultimi trent’anni le neuroscienze, anche grazie allo sviluppo di metodologie e tecnologie di indagine particolarmente innovative, hanno prodotto molteplici nuove conoscenze relative alla spiegazione del comportamento umano, proponendo alcune originali riflessioni il cui fulcro è costituito dall’emergere di una nuova visione antropologica, quella di un uomo il cui comportamento è determinato fondamentalmente dal suo cervello.
Il regista di Inside out, Pete Docter, avvalendosi della fondamentale collaborazione di due consulenti scientifici quali Dacher Keltner e Paul Ekman, professori di psicologia presso il Greater Good Science Center dell’Università di Berkeley, si è assunto il compito di provare a mettere in scena ciò che accade nel cervello quando questo è in azione, e soprattutto qual è il ruolo che le emozioni giocano nei complessi meccanismi cerebrali che sono alla base della cognizione e del comportamento umano.
La storia è quella di un’adolescente (Riley) che vive l’esperienza di un trasferimento con la famiglia dal Minnesota a San Francisco. Le voci narranti collocate all’interno dell’organismo della ragazzina, più specificatamente nel suo cervello, sono le singole emozioni. Il riferimento è a quelle che, secondo una consolidata tradizione di studi, vengono considerate le cinque emozioni di base: Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto (Damasio A., 2003). Queste sono rappresentate come dei piccoli esseri in miniatura che pilotano, a partire dal cervello, l’agire dell’undicenne Riley, protagonista di alcune esperienze che la traghetteranno verso l’adolescenza. Gran parte della narrazione si svolge all’interno stesso del cervello di Riley: è lì che le emozioni, capitanate da Gioia, dispiegano la loro influenza rispetto ai ragionamenti che lei metterà in atto.
Nel corso della difficile esperienza del trasferimento nella nuova città, Riley vivrà alcuni eventi che la destabilizzeranno profondamente: l’adattamento ad un nuovo ambiente, la perdita di tutte le precedenti abitudini, la nostalgia per i luoghi e le persone a cui era affezionata. Uno degli aspetti più originali del film è che tutto ciò viene abilmente raccontato non da una voce esterna ai fatti ma, come detto, da una sorta di personificazione delle emozioni stesse. In ogni reazione che la ragazzina metterà in atto rispetto all’ambiente circostante, lo stimolo all’azione sarà fornito dalle diverse emozioni. Quando ad esempio lei vivrà un momento di smarrimento, sarà Tristezza che riuscirà a rimettere in equilibrio il suo stato interiore. In effetti, lungo tutto il film, le maggiori interazioni avverranno tra Gioia e Tristezza. Nel caso di Riley, pur essendo Gioia l’emozione preponderante e peculiare del suo carattere, l’autore ha voluto sottolineare con chiarezza l’importanza di Tristezza nel determinare alcuni dei suoi comportamenti. Mobilitando una sua riorganizzazione identitaria, sarà quest’emozione, infatti, a far comprendere uno degli elementi fondamentali nella storia del film: la fine dell’infanzia di Riley.
Il brillante risultato raggiunto dal regista tende così a restituire, attraverso le immagini, un modello della mente umana che oggi, alla luce delle più recenti scoperte delle Neuroscienze, appare alquanto realistico.
Come già accennato, lo scenario di riferimento del film è il cervello. È lì che, secondo gli autori, si struttura l’identità di ogni singolo individuo. Non vi è alcun omuncolo a cui fare riferimento, non vi è un solo ed unico artefice identificabile, sia esso materiale o immateriale, che muove i fili e determina il comportamento, ma un “team” di emozioni che, dall’interazione tra loro e l’ambiente, fungono da generatori di stimoli all’azione. Non vi è insomma alcuna essenza a cui fare appello: in questi termini l’identità viene considerata – in linea con le più accreditate teorie sociologiche contemporanee – come il frutto di un processo dialettico.
Come già anticipato, ciò che a mio avviso è importante sottolineare è come questo tipo di lettura della realtà e dell’uomo si accompagni ad una fondamentale trasformazione del paradigma scientifico di riferimento in atto nella nostra cultura.

Dall’uomo strutturale all’uomo neuronale

In un recente saggio, il filosofo francese Francis Wolff (Wolff F., 2010) ha molto efficacemente teorizzato quello che lui definisce un epocale mutamento dell’immagine dell’uomo derivante dall’affermarsi del paradigma scientifico neuro-cognitivista. Tale paradigma considera l’uomo un essere vivente come tutti gli altri, frutto dell’evoluzione e dell’adattamento all’ambiente. In quest’ottica, tutti gli esseri sembrerebbero essere indistintamente sottoposti alle sole leggi biologiche dell’adattamento evolutivo. I comportamenti, compresi quelli più specificamente 
umani (il ragionamento, il linguaggio, i rapporti sociali, la trasmissione culturale) vanno messi in relazione ad un solo tipo di causalità. Essi deriverebbero tutti da esperienze neurofisiologiche, più in particolare da stati cerebrali, che appaiono essere gli unici in grado di produrre un vero e proprio potere causale in relazione al comportamento umano. Tutte le scienze cognitive – fa notare inoltre Wolff – vengono definite da un postulato metodologico che considera i processi che conducono alla conoscenza (la percezione, la memoria, l’apprendimento, l’immaginazione, il linguaggio, il ragionamento, la progettazione intenzionale delle azioni), e più in generale i processi mentali (pensieri, coscienza, emozioni, sentimenti), come dei fenomeni naturali. Il paradigma neuro-cognitivista sembrerebbe in tal modo sostituirsi, nello studio dell’uomo e nell’immagine ad esso associata, al paradigma socio-strutturalista tipico delle scienze sociali.
Il cosiddetto uomo strutturale può infatti essere considerato il fulcro delle riflessioni del paradigma socio-strutturalista, principale riferimento delle scienze umane e sociali. Esse, studiando le strutture (nelle lingue, nelle regole di parentela, nei rapporti sociali, nell’inconscio), si sono dotate di un oggetto invariabile, formale e strettamente determinato e generalizzabile (come lo sarebbe un oggetto matematico) che non dipende dalle variazioni locali, dai punti di vista individuali, né tantomeno dalla coscienza degli attori. Nell’indagare la natura e l’esistenza delle strutture occorre considerarle come strumenti di conoscenza parziale atti a ridurre la complessità dell’esperienza (Pecchinenda, 2014).
Entrambi i paradigmi, nel senso attribuito a tale concetto da Thomas Kuhn (Kuhn T., 1978), rappresenterebbero dunque, secondo Wolff, una teoria scientifica la cui riuscita esemplare finisce per imporle come modello generale di riferimento da seguire per tutte le altre scienze.
Uno dei principali precursori dell’immagine dell’uomo derivante dal paradigma cognitivista è certamente Pierre Changeux, neurobiologo francese docente presso l’Istituto Pasteur di Parigi il quale, nel 1982, ha pubblicato un fondamentale volume in cui viene proposta una nuova immagine dell’uomo che, per differenziarlo da tutte le tipologie precedenti, definisce, appunto, “neuronale”(Changeux J.P, 1982).
Quest’ultima è l’immagine dell’uomo che, come già ricordato, rappresenterà da allora in poi, il fulcro delle riflessioni delle neuroscienze. Si tratta in entrambi i casi di visioni dell’uomo che, se assunte acriticamente, potrebbero però rischiare di fornire una lettura di tipo eccessivamente determinista. Per superare un tale impasse è necessario pertanto arricchire gli spunti che il paradigma neuro-cognitivista ci fornisce, con alcune riflessioni di derivazione sociologica.
Occorre infatti guardare il cervello in termini dialettici. La materia che si trova all’interno del nostro cranio, e che contribuisce a renderci ciò che siamo, è inserita in un corpo, è parte cioè di un organismo vivente. Tale organismo è immerso in un ambiente, ed è da questo che riceve stimoli ai quali deve reagire. Quando ci riferiamo al cervello, dobbiamo pertanto sempre necessariamente considerarlo, in base a questa indissociabile relazione, in quanto cervello sociale.

Il mito neuronale

Indipendentemente dal rifermento ai singoli studiosi, è un dato di fatto che attualmente i contributi più originali allo studio del comportamento umano sembrerebbero, comunque, giungere dalle neuroscienze. A partire dalla seconda metà del ventesimo secolo il progresso di queste nuove discipline è stato enorme, anche grazie allo sviluppo delle tecnologie di brain imaging, come ad esempio la risonanza magnetica funzionale. Come è noto le neuroscienze cognitive si pongono come obiettivo principale il compito di chiarire quelli che possono essere i collegamenti tra i meccanismi cerebrali e le funzioni cognitive, soprattutto quelle che ci consentono sia di intessere relazioni sia di costruire l’ambiente in cui viviamo, entrambi fenomeni imprescindibili per la sopravvivenza stessa.
Tornando al film dal quale ho preso spunto, quelle che intendo analizzare sono soprattutto le modalità attraverso le quali questo tipo di narrazioni cinematografiche finiscano per inserirsi in una più generale visione del mondo e contribuiscano alla costruzione di un immaginario collettivo a cui gli esseri umani hanno necessità di attingere per dare senso e significato alla propria esperienza.
Se è vero che le neuroscienze cognitive ci informano sulle questioni neurobiologiche, e che dunque forniscono una mappa di tipo bio-fisiologico del nostro cervello in azione, è necessario che anche altre discipline si occupino di elaborare modelli esplicativi relativi al senso e al significato delle azioni individuali e collettive. Modelli che spieghino in modo adeguato la formazione (connessa alle straordinarie capacità linguistiche dell’uomo) delle nostre “storie” individuali e collettive, che hanno sì basi neurobiologiche, ma che sono principalmente connesse alla nostra esistenza sociale.
Seguendo un’impostazione sociologica di derivazione fenomenologica (Berger P., Luckmann. T, 1969), è possibile sostenere che gli esseri umani costruiscono socialmente il mondo, ovvero elaborano una serie di strumenti per provare a fornire un ordine e un orientamento alla loro condotta altrimenti caotica. Affinché l’ordine sociale stabilito possa perdurare nel tempo, ed essere pregno di senso e di significato per chi lo condivide, è necessario che esso venga in qualche modo legittimato. Quest’ultima funzione è stata storicamente svolta dai miti. Il mito è prodotto umano che – seguendo una celebre definizione di Georges Sorel – va considerato come un qualsiasi insieme di idee che infonde un significato trascendente alla vita degli uomini, trascendente rispetto alle consuetudini e alle preoccupazioni della vita quotidiana (Pecchinenda G., 2009).
Lo studioso nordamericano Erik Davis, in un suo importante saggio (Davis E., 2001), suggerisce a tal proposito come i riferimenti mitologici che a suo parere sostengono l’immaginario collettivo occidentale, possano essere suddivisi in tre grandi modelli paradigmatici, da lui definiti mito magico-religioso, mito della macchina, e mito dell’informazione.
Tali modelli avrebbero a suo parere attraversato la storia del pensiero occidentale, fornendo i riferimenti narrativi all’immaginario collettivo delle nostre società. Seguendo in modo molto schematico la proposta teorica di Erik Davis, rientrerebbero nel mito di tipo magico-religioso tutte quelle narrazioni che utilizzano il rapporto microcosmo-macrocosmo (Mirecea E., 1968) per spiegare e giustificare l’esistenza del mondo sociale. Secondo tali riferimenti la realtà sarebbe pregna di sacralità e il microcosmo umano non sarebbe altro che un riflesso di un macrocosmo sacro di tipo trascendente. Nell’ambito di questo genere di narrazioni, ogni sfera dell’agire umano troverebbe, in sostanza, la sua legittimazione in narrazioni di carattere sacro-religioso.
A seguito di una serie di mutamenti socio-storici, tra i quali rientrano il processo di secolarizzazione e la rivoluzione industriale, si assisterebbe per Davis all’imporsi di un nuovo modello di riferimento mitologico: il cosiddetto mito della macchina. In questa nuova cornice immaginaria, viene a modificarsi sia l’immagine del mondo anche l’immagine dell’uomo, che comincia ad essere concepito come un uomo-macchina. Due rappresentanti emblematici di questa fase potrebbero essere considerati Newton, da un lato (è celebre il suo riferimento all’Universo, da lui definito “un grande orologio”, e a Dio, considerato il suo orologiaio) e il dottor Frankenstein dall’altro. Il mito della macchina, e il riferimento all’elettricità ad esso associato da Davis, porta difatti con sé l’idea di un mondo propulsore di energie. Il principio che guiderà dunque gli esperimenti e la ricerca sarà quello di presupporre l’esistenza di un flusso che attraversa tanto gli uomini quanto il cosmo e le cose del mondo.
L’ultimo mito al quale Davis fa riferimento è il cosiddetto mito dell’informazione. L’ibridazione tra macchine, teoria dell’informazione e cibernetica si colloca all’origine di tale mito. L’evoluzione tecnologica segnerà il passaggio dalle tecnologie meccaniche a quelle digitali. Personaggio simbolo individuato da Davis per ciò che concerne questo mito è Samuel Morse: la corrente elettrica che correva lungo i fili del telegrafo da lui inventato era, in sé, un mezzo analogico che fluiva attraverso l’oscillazione delle onde. Interrompendo e ristabilendo regolarmente questo flusso con un semplice interruttore, e fissando un codice per decifrarle, Morse spezzò la comunicazione analogica in unità digitali distinte, in punti e linee che assumevano significato: da quel momento in poi l’elettricità si trasformava in informazione; attraverso l’elettricità si poteva comunicare. Tra gli altri possibili riferimenti mitologici che, secondo Davis hanno alimentato l’immaginario legato al mito dell’informazione, gioca un ruolo di primo piano il codice binario. Alle fondamenta del lavoro concernente l’elettronica e l’informatica c’è infatti l’ipotesi di poter ridurre la realtà in informazioni strutturate con solo due simboli lo “0” e l’ “1”. Tale concezione si estenderà a tutto il panorama scientifico sino ad arrivare allo studio della genetica in biologia. Il mondo e l’uomo vengono interpretati come costituiti essenzialmente da informazioni; tutta la realtà, del resto, si ritiene possa essere traducibile in informazione.
Tali riferimenti alle mitologie principali che, secondo Davis hanno contribuito ad irrorare e legittimare l’immaginario collettivo occidentale, possono risultare utili per introdurre alcune delle caratteristiche che a mio avviso possono spiegare l’emergere di questo nuovo paradigma neuronale emergente nella nostra cultura. Ciò che recentemente sta cominciando a diffondersi è infatti l’immagine di un nuovo tipo di uomo che non è più considerato parte di un mondo sacro, che non è più una sorta di macchina frankesteiniana che possiede al suo interno fluidi di energia elettrica, né tantomeno può più essere considerato come costituito da pura informazione. O meglio, alcune di queste caratteristiche sono ancora riscontrabili (si pensi all’immagine dell’uomo-genoma che per un certo periodo si è imposto in alcuni ambiti scientifici) (Pecchinenda G, 2007), ed alimentano ancora il nostro immaginario, ma ad esse è certamente necessario aggiungere l’idea che l’uomo sia sostanzialmente determinato dal suo cervello.

Sociologia e neuroscienze

Vittorio Gallese, uno dei più accreditati neuroscienziati contemporanei, sostiene a tal proposito che una persona umana possa essere intesa “come un sistema d’interconnessione tra cervello e corpo che interagisce in modo situato con uno specifico ambiente popolato da altri sistemi cervello-corpo”. Questa è l’ipotesi di fondo della cosiddetta embodied cognition. A differenza dell’estrema semplificazione della realtà contenuta in alcune ipotesi scientifiche di tipo determinista, le neuroscienze cognitive fanno appello alla complessità e alla necessità di un approccio multidisciplinare per indagare con maggiore profondità i sempre articolati fenomeni che riguardano la psiche umana. L’appello di alcuni studiosi ad una sempre più intensa collaborazione tra ambiti disciplinari diversi, e in particolare l’auspicata apertura verso le scienze sociali e umane da parte di molti autorevoli neuroscienziati, deriva dal fatto che si va diffondendo sempre di più una concezione del cervello non come entità fissa e immutabile, ma bensì come un insieme di reti neurali, connessioni di sinapsi, sistemi plastici. Ai fini della sopravvivenza sono diversi i livelli di interazione che ci caratterizzano: quelli interni al cervello, quelli tra corpo e cervello e infine, ma non per questo meno significativa, quelli tra l’organismo e l’ambiente in cui esso è inserito. Per riuscire a restituire una conoscenza maggiore di tale complessità appare pertanto sempre più necessario guardare lo stesso fenomeno da più prospettive disciplinari.
Un altro importante autore che si fa interprete di questo paradigma emergente, riconoscendo con decisione la necessità di un’apertura a discipline differenti, è il neuroscienziato Joseph LeDoux. Lo studioso francese, partendo dal nuovo assunto che vede la mente come il prodotto del cervello, s’interroga su come quest’ultimo possa rendere possibile l’esistenza della mente e dunque la percezione del Sé. In un suo importante lavoro LeDoux presenta una sua ricerca sul modo in cui il cervello realizza il Sé (LeDoux J, 2002). L’ipotesi sostenuta nel testo è la seguente: “il Sé rappresenta la totalità di ciò che un organismo è fisicamente, biologicamente, psicologicamente, socialmente e culturalmente. Sebbene sia un’unità, non è unitario. Comprende cose che conosciamo e cose che non possiamo sapere, cose che gli altri sanno su di noi e che noi ignoriamo. Include attributi che esprimiamo o nascondiamo, e qualcuno che, semplicemente, non richiamiamo. Accoglie ciò che ci piacerebbe essere, come pure quello che ci auguriamo non diventare mai”.
L’autore sostiene dunque che le differenti componenti che costituiscono la nostra identità corrispondano al funzionamento di differenti sistemi cerebrali, i quali possono essere sincronici o meno. La tesi avanzata da questo studioso afferma che il cervello sia capace di renderci ciò che siamo grazie a dei processi sinaptici che consentono l’instaurarsi di interazioni cooperative tra i differenti apparati cerebrali implicati in particolari stati ed esperienze, e tali interazioni sono interconnesse nel tempo.
Il Sé sinaptico viene così delineato da LeDoux:
“l’idea che il Sé sia creato e preservato da arrangiamenti di connessioni sinaptiche [...] non sminuisce quelli che siamo. Fornisce invece una semplice e plausibile spiegazione di come sia possibile il pacchetto di protoplasma psico-spirituale e socio-culturale, enormemente complesso, che chiamiamo il nostro Sé”.
Quando si tenta di comprendere lo sviluppo cerebrale, sostiene ancora LeDoux, la dicotomia natura-cultura inizia a rendere meno identificabili i suoi confini. In tal senso diviene palese come non vi sia una dicotomia nel momento in cui si assume che natura e cultura rappresentano due modi di effettuare la medesima operazione, ovvero collegare sinapsi. Affinché sia possibile giungere al compimento di qualsiasi azione, occorre necessariamente che siano entrambe le condizioni presenti nel processo.
Changeux, LeDoux, Gallese sono solo alcuni degli studiosi che, indagando i fenomeni umani, contribuiscono a ridisegnare un’immagine dell’uomo che, così come abilmente sintetizzato da Francis Wolff, si differenzia da tutte quelle che lo hanno preceduto. Come è sempre accaduto con ogni significativo cambiamento paradigmatico, è però necessario ricordare che il loro diffondersi non si verifica solo ed esclusivamente a seguito dell’elaborazione di teorie di carattere scientifico, ma si manifestano anche (e talvolta soprattutto) attraverso le pratiche comuni e condivise nella quotidianità. Sarebbe, questo, un tema troppo ampio per poterlo affrontare esaustivamente in questa sede, può però essere sufficiente il riferimento ad alcuni esempi per poter comprendere la portata della diffusione in atto delle idee teoriche finora esposte in termini puramente scientifici. Si pensi ad esempio ai fondi di ricerca introiettati verso linee specifiche di indagine Cervello-Mente. Le nuove discipline, nate da una commistione tra vecchi saperi e nuove intuizioni come quelle legate alla neuro-estetica, alla neuro-economia, al neuro-marketing e così via, per non parlare delle applicazioni di tecniche brain imaging in ambito processuale (Di Nuovo S., 2014). Inoltre, la comunicazione scientifica non si esaurisce nel mondo accademico, né sulle riviste scientifiche. Si notino, ad esempio, le trasmissioni televisive generaliste o i quotidiani che riservano, con sempre maggior frequenza, spazi ad interventi che rimandano a studi neuroscientifici per spiegare i comportamenti umani. Dalla dipendenza da internet al controllo delle emozioni, ai suggerimenti su come migliorare la memoria, passando per le svariate statistiche che fotografano il ricorso, in fasce sempre maggiori della popolazione, agli antidepressivi. Tutto sembra essere spiegato in termini di connessioni neurali, ogni riferimento sembra orientarsi verso il funzionamento dei meccanismi cerebrali. Queste sono alcune delle suggestioni che ritengo possano rientrare tra i riferimenti “mitologici” a sostegno del contemporaneo immaginario collettivo occidentale.

Cinema e neuroscienze

Se le pratiche quotidiane connesse alla ricerca scientifica e le riflessioni di carattere teorico ad esse associate sono certamente fondamentali alla formazione dell’immaginario collettivo, non va certamente sottovalutata l’influenza dei prodotti dell’industria culturale. Le produzioni cinematografiche, in particolare quelle che, come Inside out, godono di una diffusione di carattere pressoché planetario, possono rappresentare in tal senso un ulteriore valido indicatore delle trasformazioni in atto nei riferimenti mitologici che contribuiscono ad alimentare il nostro immaginario. Un altro esempio disneyano, che è possibile utilizzare per comprendere meglio come il nostro immaginario collettivo si nutra costantemente di icone e simboli che inevitabilmente ne riconfermano l’esistenza, è stato recentemente proposto da Gianfranco Pecchinenda a proposito dell’immagine dell’uomo macchina. In un suo recente articolo (Pecchinenda G., 2015), riferendosi al film di animazione della Disney-Pixar Ratatouille, egli fa notare come i due protagonisti principali della storia – Alfredo Linguini (un goffo ragazzo che si improvviserà cuoco in un grande ristorante) e Rémy (un topolino di campagna) – possano essere rispettivamente considerati un ottimo esempio di un uomo e del suo homunculus. Nella narrazione cinematografica il ratto, infatti, dotato di straordinarie capacità culinarie, guiderà con il suo finissimo olfatto e il suo raffinato gusto, lo sguattero Linguini fino a farlo diventare uno chef di altissimo livello. “Per trasformare il ratto nell’homunculus di Linguini – egli scrive – gli sceneggiatori si servono di un’idea tutt’altro che banale: quando il giovane sguattero si appresta a cucinare, Rémy si nasconde sotto il suo grande cappello da cuoco, collocandosi così esattamente sopra la sua testa. Da lì, con un ingegnoso stratagemma comunicativo, guiderà ogni mossa di Linguini utilizzando come manubri le ciocche dei suoi capelli. In tal modo, e in perfetta sintonia con la lunghissima tradizione occidentale dell’uomo-macchina, Rémy si trasformerà non semplicemente nel cervello che muove la macchina, ma in un essere cosciente (in miniatura) che manovra il cervello stesso (considerato una vera e propria cabina di pilotaggio) del suo uomo: insomma, il ratto Rémy rappresenta in questa produzione cinematografica esattamente ciò che nell’idea occidentale dell’uomo ha rappresentato l’homunculus nel corso degli ultimi secoli”.
Analogamente Inside Out e i suoi personaggi possono essere considerati una valida rappresentazione del riferimento al mito dell’informazione cui abbiamo accennato, arricchito dagli spunti provenienti dal nascente mito dell’uomo neuronale, facendosi allo stesso tempo espressione di un cambiamento paradigmatico interno alle stesse neuroscienze.
Vittorio Gallese, a sostegno di una tale interpretazione, delinea le coordinate di tale mutamento: Stiamo assistendo né più né meno che a un cambiamento di paradigma. Si sta, infatti, progressivamente affermando un nuovo approccio scientifico allo studio della condizione umana, (in parte stimolato dai risultati di un certo tipo di ricerca empirica in neuroscienze), che parte dallo studio della dimensione corporea della cognizione: il cosiddetto approccio della “cognizione incarnata” (embodied cognition). In questo ambito, il problema del soggetto vede oggi convergere la prospettiva fenomenologica e quella neuroscientifica (Gallese V, 2013, p. 4).
Il film ne è espressione perché apre allo spettatore il mondo delle emozioni: pur essendo localizzate all’interno dell’organismo, esse necessitano del corpo per esistere ed esprimersi.
Il neurologo portoghese Antonio Damasio, in uno dei suoi testi fondamentali (Damasio A, 1995), contestando alcuni assunti dell’impostazione cartesiana rispetto alla contrapposizione tra res cogitans e res estensa, mette a tema il rapporto tra emozione e ragione. L’autore si allontana dalla concezione che intende l’essere umano nella separazione tra mente e corpo, considerandola fallace così come lo è la distinzione tra mente e cervello. Damasio, in accordo con quanto sostenuto da Cartesio, considera il controllo delle tendenze animali mediante pensiero, volontà e ragione ciò che ci ha reso umani; il punto contestato da Damasio è che tale controllo non avviene tramite un agente non fisico, che non vi è insomma alcun essenza o anima spirituale in cui si sostanzia il controllo. La posizione teorica del neurologo portoghese si colloca nel pieno del mutamento paradigmatico di cui parla Gallese: nuovo approccio neuroscientifico che mette al centro della propria indagine il corpo vivo e i suoi correlati neurali sensorio-motori.
Il contributo di Damasio è di fondamentale importanza poiché esso può essere considerato un lavoro pioneristico sulle basi neurobiologiche delle emozioni. Partendo dai suoi studi su pazienti neurologici affetti da deficit nell’attività decisoria associati a un disturbo dell’emozione, egli avanza l’ipotesi che l’emozione faccia parte del circuito della ragione e che possa contribuire al processo del ragionamento, anziché esserne un deterrente. Quando dal processo del ragionamento viene esclusa l’emozione, come avviene in alcune patologie neurologiche, la ragione si scopre essere ancor più difettosa di quando l’emozione s’intromette nelle nostre decisioni. Ciò che l’autore suggerisce – in perfetta consonanza con quanto viene rappresentato nel film Inside out – è che alcuni aspetti del processo dell’emozione e del sentimento sono indispensabili per la razionalità.
Damasio, arricchendo alcuni degli assunti del pensiero neurobiologico più diffusi, propone inoltre l’ipotesi che le reti critiche su cui si fondano i sentimenti comprendano non soltanto la collezione di strutture cerebrali, nota come sistema limbico, ma anche alcune delle cortecce cerebrali prefrontali e, soprattutto, quelle parti dell’encefalo che integrano i segnali provenienti dal corpo e che ne generano le mappe. Il corpo, lungi dall’essere un semplice sostegno per il cervello, viene pertanto visto come l’imprescindibile materia di base per la formazione delle rappresentazioni cerebrali. I sentimenti, insieme alle emozioni da cui provengono, servono come guide interne, e non sono inafferrabili – come vorrebbe l’opinione scientifica tradizionale.
Non è possibile in questa sede approfondire ulteriormente i temi del lavoro damasiano in relazione alle sue riflessioni sulle emozioni di primo livello, di secondo livello, e sui sentimenti. Il suo contributo, però, ci è di grande aiuto per comprendere quanto si stia modificando l’epistemologia che guida lo studio della condizione umana e quanto alcuni prodotti culturali riconfermino costantemente l’immaginario collettivo.
Rispetto all’influenza delle emozioni nel processo razionale Inside out, anche in questo caso, può essere considerato a mio parere una valida cartina di tornasole.
In una delle scene più significative del film, Riley decide di mettere in atto una fuga per sfuggire alla sua nuova casa e al suo nuovo ambiente, in cui si sente particolarmente a disagio. In questo caso il regista riesce a mostrare come tale decisione sia causata dalla spinta esclusiva di alcune sue emozioni alleate. Successivamente, però, alcune altre emozioni si riorganizzeranno per risolvere il disagio sentimentale e la Tristezza causata da questa azione emotiva di fuga, in modo tale da mettere in moto un meccanismo di razionalizzazione che la porterà a ripensare al suo comportamento e a rientrare nel suo rinnovato ambiente familiare; in termini neuroscientifici si direbbe che la razionalità venga innescata e resa possibile da una spinta emotiva (in questo caso la Tristezza), fenomeno che l’attuale stato della ricerca sul cervello tende a rendere compatibile: come già aveva intuito un grande filosofo come Spinoza, per superare un’emozione negativa non è sufficiente la Ragione, ma è necessaria la spinta di un’emozione positiva più potente di quella negativa.
A questo punto può essere infine utile introdurre un ultimo elemento alla nostra analisi. Le impostazioni teoriche prese fin qui in considerazione, possono tutte essere collocate nell’ambito delle emergenti neuroscienze cognitive. Più nello specifico, il riferimento è stato fatto a quegli autori che, in tale ambito, si sono resi interpreti di un’effervescenza intellettuale che ha consentito un’apertura a discipline non tradizionalmente affini al loro settore di studi, come l’etologia, la filosofia evoluzionista, la fenomenologia, la fisiologia e molte altre. Tra questi, appare a mio avviso oggi sempre più necessario insistere sull’opportunità di estendere tale apertura a un più sostanzioso contributo delle discipline sociologiche.

Bibliografia

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