1.10.16

Mondi doppi. Una lettura arrivata per posta

Personaggi della letteratura che prendono vita
Ricevuta per posta ordinaria da un mittente sconosciuto. Costui deve averla battuta al computer per poi scannerizzarla, per salvarne il rispetto dei font di stampa. La carta appare sgualcita, con qualche macchia che sembra di caffè, e qualche piccola bruciatura, come prodotta da frammenti di tabacco incandescente. I nomi sono noti, sono quelli dei protagonisti – e dell'autore – della bellissima novella del messicano Carlos Fuentes, Aura. Non ho nessuna idea della sua origine, né del perché è stata indirizzata a me.
CONOSCERE FELIPE MONTERO
DI IGNACIO LLORENTE
Conosco Felipe Montero, e il suo disagio. O meglio, lo capisco. Lo capisco nel senso di comprenderlo. E quindi alla fine, siccome comprendere è conoscere, lo conosco.
È sconcertante ritrovarsi a confrontarsi con un proprio simile, un'immagine virtuale – un doppio, insomma. La stessa cosa che è successa a me, quando ho scoperto che nel mondo delle cose materiali – della carne, della carta, dei suoni: quella che il suo popolo chiama "realtà naturale" – esiste almeno un mio corrispondente.
Stessa scoperta, nei due sensi, dei Felipe Montero – quello digitale, quello "naturale".
Vertigine perturbante come mai ce ne possono essere, con una serie possibile di conseguenze, quando ci si torna razionalmente, superato l'iniziale momento di disorientamento, di sconcerto, di sdoppiamento, anche nella propria "realtà" (ma mi chiedo: cosa vuol dire, realtà?) confrontando il se stesso di prima, e il se stesso del dopo la scoperta che c'è qualcun altro che usa il tuo nome.
L'intera architettura di un'esistenza – fatta di ricordi, di conoscenze, di reciprocità con gli altri che ti stanno affianco e intorno – vacilla: e se quello che chiamo "Io" non fosse più me? O se a questo "Io" se ne sostituisse un altro?
Perché, in fondo, chi assicura agli altri che un certo " Felipe Montero" o un particolare "Ignacio Llorente" che conosciamo come tale, che si dice tale, sia quello vero? O che sia "vera" Aura, la mia signora nel tempo del racconto e del ricordo, evocata da Montero?
Certo, nel mondo "naturale" (da ora in poi userò questo termine per il mondo in cui il materiale su cui sto fissando queste idee si chiama "carta", materiale fatto di "cellulosa", sostanza che si ricava dal "legno" degli "alberi" – o anche, ormai dalla "plastica", la cui natura sintetica, artificiale, sicuramente è più affine alla mia, o a quella degli esseri che vivono nel "Web" o nei mondi ultradimensionali definiti dalla metafisica o nei racconti dell'orrore…) esistono fotografie, quindi immagini che ritraggono le singole persone, gli individui, vi associano un nome, una data, una firma, anche.
Ma quando arrivano improvvise queste incursioni dagli altri "mondi"? come quelli fatti di carta? o di elettricità? o di "puro spirito"?
Immagino che la "sicurezza ontologica", quella che gli uomini "naturali" nutrono per la loro esistenza fatta di unicità, rischi di andare in pezzi, di frantumarsi… come succede peraltro per noi…
Forse era diverso al tempo del sogno e degli specchi, quando i propri doppi li si poteva incontrare solo lì: presenze effimere, evanescenti, eventuali, prive di stabilità e di sostanza materiale. Eppure, altrettanto inquietanti e stranianti, che si aggiungevano alle ombre dei corpi degli uomini che la luce stanava dall'altrove. Non a caso, perdere la propria ombra era specularmente orribile quanto incontrare il proprio doppio, implicando il rischio di imbattersi addirittura nella Morte. E di coloro che vivono nei suoi regni, e periodicamente si affacciano ai nostri mondi.
Ricordo ormai a memoria questo brano, per esempio:
"A quel tempo il mondo degli specchi e il mondo degli uomini non erano, come adesso, incomunicanti […] I due regni, lo specolare e l'umano, vivevano in pace […] Una notte la gente dello specchio invase la terra […] Ma, dopo sanguinose battaglie, le arti magiche dell'Imperatore Giallo prevalsero. Egli ricacciò gli invasori, li incarcerò negli specchi, e impose loro il compito di ripetere, come in una specie di sogno, tutti gli atti degli uomini […] Un giorno tuttavia, essi si scuoteranno da questo letargo magico".
Qui al popolo degli specchi viene attribuita – o riconosciuta – la capacità di sognare, di sognare non chi sta dall'altro lato dello specchio, cioè i "naturali", ma qualcos'altro ancora, forse se stessi che replicano le azioni del popolo dell'Imperatore Giallo: un moltiplicarsi virtualmente all'infinito di universi, di mondi possibili…
Il brano è di Jorge Luis Borges, uno dei maestri assoluti nell'esplorare le soglie che individuano i varchi fra le sfere di esistenza. Un vero e proprio oracolo, o aruspice, nel favorire i transiti fra un universo di possibilità e l'altro. E in buona compagnia: Edgar Allan Poe, von Chamisso, Alfred Kubin, Freud, e l'ultimo della stirpe di questi sciamani, Erik Davis…
Ma la minaccia che chiosa il racconto di Borges deve farci riflettere, perché si ripete continuamente, ogni volta che negli incubi e nelle allucinazioni si incontrano i propri doppi, o – peggio – si teme di smarrirsi in simulacri variamente elaborati di noi stessi, se consideriamo tutte le possibili riproduzioni della nostra effigie, come le foto per chi abita la sfera "naturale", la stringa, la cifra, la scrittura, il totem per chi popola gli altri reami o regimi di esistenza: significherebbe la condanna certa all'oblio.
Proprio per questo, credo, Felipe Montero descrive la storia della sua stirpe, gli intrecci che la hanno composta, i suoi legami incrociati con le sue origini lontane nel tempo – e nello spazio. E alcuni momenti particolari, "eventi fatali" della sua biografia. Punti di svolta nella sua vicenda personale che si sono attualizzati fra le infinite possibilità che si presentano ad ognuno di noi (sì, anche a noi) continuamente. Per dare corpo a se stesso, alla sua esistenza, alla sua identità, alla sua unicità e riconoscibilità.
Perché, parliamoci chiaro, i personaggi sintetici, che procedono dalla dimensione digitale, fatti di pura informazione, sono per natura fungibili e metamorfici, prodotto di istruzioni alfanumeriche che possono continuamente riarticolarsi e ricombinarsi, e noi, quelli come me fatti solo di scrittura, non abbiamo bisogno di immagini, di icone che ci raffigurino…
E così abbiamo una "speranza di vita" infinitamente superiore a quella degli umani del "mondo reale", che sostengono di averci "creati", e che io preferisco pensare ci abbiano solo evocati, dall'universo delle possibilità, delle potenzialità, oltre gli schemi e le matrici della causalità.
E conosco Felipe Montero, l'altro Felipe Montero, quello che ha deciso di forare la membrana che separa i due regimi e provare a contattare il suo… omonimo? doppio? analogo? come conosco il signor Fuentes, Artemio Cruz e gli altri personaggi che rendono possibile il diario che il Montero "naturale" ha redatto (in terza persona, guarda caso) per cercare di dare senso – che tentativo folle, o almeno pretenzioso, in cui i "naturali" si imbarcano continuamente! – alla "realtà" che lo circonda, anche quando contraddice le presunzioni che condivide con i suoi simili.
Comprendo il suo sforzo, la speranza che narrando le vicende dal suo punto di vista potesse a sua volta autonarrarsi, e così, forse acquistare più corpo, più presenza, più realtà – l'illusione che colpisce talvolta come un morbo noi, esseri dell'immateriale, evocati da coloro che vivono dall'Altra Parte (ancora Kubin!) – come se fosse più vera della nostra. Realtà e verità, che dilemma ozioso, per certi versi!
Per me è diverso – ed è per questo che ho deciso di rompere il mio riserbo, e incrinare la membrana che ci separa – perché vengo dalla scrittura, da quella della carta e della penna. Dalla letteratura, insomma, interfaccia porosa fra noi, personaggi di questa, e voi persone (o personaggi) "in carne ed ossa", come amate dire.
Perché noi, in effetti, noi siamo immortali. Una volta pensati, estratti dall'universo della pura possibilità – e scritti – siamo destinati a esistere per sempre, come Melmoth, l'Errante di cui un oscuro scrittore irlandese conosceva e svelò i segreti.
Può mancare tutto, ma i libri si continueranno a leggere, le storie verranno raccontate ancora, e una volta scritte, sono destinate a circolare – corrotte, trasformate, arricchite – per sempre. E con loro, quelli che le abitano e gli danno sostanza.
E conosco Adolfo Fattori, il mio omologo "naturale", cui spedisco questa missiva, anche se, in effetti, non so ancora perché. Ma so che prima o poi mi sarà chiaro.
Ignacio Llorente
Leggere questa lettera, dopo averla aperta – confesso, con una certa trepidazione e aspettativa, e anche un po' di tensione – mi ha lasciato basito: ansia, forse panico, vertigine: il mondo perdeva i connotati soliti. Non si trattava di me, che scrivevo a me stesso – a meno che non fossi ormai perso nei labirinti della follia – ma di un altro che mi scriveva, col mio nome, mostrando di conoscermi (ho espunto i passaggi più intimi e imbarazzanti, non ho tanto coraggio…) profondamente e da tempo. È stato come incontrare per strada il proprio sosia – o alzare lo sguardo verso uno specchio e vedere se stesso, ma indecifrabilmente diverso dal solito.
E mi è tornato alla mente un episodio di parecchi anni fa, sepolto nella memoria, in cui – allora, ma in modo molto meno consapevole e più evanescente e futile – mi venne il dubbio di essermi incontrato con me stesso, un me stesso parallelo, incrociatosi con me provenendo da un altro spazio, e da un altro tempo.
Camminavo lungo una strada solitaria, sceso da un treno che veniva dal Nord, in attesa di un altro che mi avrebbe condotto al Sud: viaggiavo di frequente, da emigrato/pendolare fra il lavoro e la famiglia, quando mi si avvicina un clochard: stesso impermeabile, ma più stazzonato e unto; stessa barba, solo più incolta; stesso cappello – era già quello che cita Montero – ma più sfibrato e usato. Era più basso di me – questa era la differenza più notevole – ma non saprei dire se per la statura o per la fatica dell'esistenza che conduceva.
Bene, quest'uomo mi chiese una moneta, o almeno un caffè. Decisi per il caffè, così avrei potuto prenderlo in compagnia: come viaggiatore ero un solitario, restio ad attaccare conversazione con i compagni di viaggio, teso ad arrivare al più presto possibile a casa. E quell'incontro aveva l'impagabile pregio di essere effimero, breve, e probabilmente sarebbe stato senza repliche.
Ordino due caffè ad uno dei chioschi della stazione. Il primo mi arriva in una tazzina di plastica, e lo passo – per educazione, per formalismo – al mio effimero e casuale compagno, che fa appena in tempo a prendere la tazzina che questa perde per il calore il fondo, e il caffè si versa tutto per terra. Naturalmente ne chiedo un altro, che il barman prepara senza farmelo pagare.
Ma non è questo il punto.
Piuttosto, in quel momento mi apparvero epifanicamente chiare due cose: che basta un nonnulla perché gli eventi ci facciano deviare dalla direzione intrapresa, dall'ordine scontato delle cose, e ci conducano altrove, in un luogo in cui non saremmo voluti andare, attraverso un evento marginale, insignificante in apparenza, ma cruciale, come nel caso in cui un attimo di comprensione e di empatia poteva essere vanificato dalla sfortuna dell'imbattersi in un oggetto difettoso – giusto per confermare l'accanimento delle cose contro una vittima che presumibilmente da casuale, si sarebbe trasformata in predestinata.
E poi, di conseguenza, che al posto di quell'uomo avrei potuto esserci io, se la mia vicenda personale avesse di poco deviato dalla direzione in cui pareva muoversi. "Eventi fatali"? Destino? Caso?
A distanza di anni, mi dico, dopo aver ricevuto questa lettera, che forse ho incontrato un altro Ignacio Llorente, magari solo potenziale, possibile, eventuale. Magari solido nella sua esistenza in un'altra realtà, che era venuto – o era stato mandato – a dirmi qualcosa…
Ho letto tutta la lettera, più volte.
Conosco Felipe, quello che sta da questa parte delle interfacce – schermi, specchi, pagine – che ci separano e connettono contemporaneamente all'altrove dell'immaginazione, come conosco gli altri di cui scrive Llorente – anche il Felipe Montero di cui scrive il mio amico qui, da questa parte delle cose. Questo, all'inizio, non ha fatto che aumentare il mio sconcerto. Ho cercato dappertutto, in casa, al lavoro, in rete e nei libri! Le tracce della mia solidità materiale: ho raccolto tutte le foto che mi ritraggono, e i libri in cui sono citato (sono scritto!) e che ho scritto. E mi sono piazzato davanti allo specchio con fra le mani una delle mie foto, a cercare conferma della mia esistenza.
Perché una nostra foto, molto più degli specchi, raffigura sicuramente noi stessi, non qualcun altro, un omonimo, o un sosia: lo sfondo assicura la certezza che si tratta di noi. Nella maggior parte dei casi, è fatta di oggetti che certamente sono più longevi e stabili delle persone che vengono ritratte, e – nella loro configurazione – sono ancor più unici di noi individui del terzo millennio, e mi è sembrato il modo migliore per confermarmi nella mia identità, unicità.
Ma so che è un tentativo inutile… la paura di non esistere, o di smettere di esistere è troppo forte. Perché non è l'unica: speculare a questa paura, ce n'è un'altra – tutta nostra, contemporanea, attuale: di ritrovarci moltiplicati, alterati, confusi con altri – omonimi quanto anonimi sosia, che si moltiplicano in rete. Il web ha questo di speciale, che consente la moltiplicazione dei nostri nomi, e – nella percezione dei nostri simili – della nostra identità, mettendo così in pericolo la nostra unicità e condannandoci all'incertezza più totale, in un gioco di specchi che non può essere che da vertigine.
Ma poi… poi mi sono calmato. Alla fin fine, seppure smettessi di esistere da questo lato, avrei, fondendomi con lui, la stessa immortalità di Ignacio Llorente, l'altro: in fondo, non si può essere ancora contemporaneamente in due posti. O sei scrittura, o sei materia.
Essere scritti da qualcun altro – come scrivere – "… è uno spossessarsi senza fine, un morire inesorabile."
E a quel punto, non avrebbe più importanza:
"… la supposta inesistenza susseguente alla morte [...] se un giorno cessassimo di esistere… non lo sapremmo mai, non è vero?"
(Macedonio Fernandez, La materia del nulla)
Enrico Lupo