12.1.17

Contributi per una sociologia delle neuroscienze


Una riflessione a partire dal volume di Santo di Nuovo "Prigionieri delle neuroscienze?"
Il 1983 è l’anno in cui Pierre Changeux, neurobiologo francese docente presso l’istituto Pasteur di Parigi, scrive il testo “L’uomo neuronale”. Ciò che questo studioso propone è una nuova immagine dell’uomo che, per differenziarlo da tutte le tipologie precedenti, egli definisce appunto “neuronale”.

Questo testo è espressione del suo tempo, un tempo in cui, secondo le nuove scienze emergenti, si assisterebbe al passaggio dall’uomo strutturale all’uomo neuronale. L’uomo strutturale è il fulcro delle riflessioni del paradigma strutturalista, principale riferimento delle scienze umane e sociali le quali, studiando le strutture (nelle lingue, nelle regole di parentela, nei rapporti sociali, nell’inconscio) si dotano di un oggetto invariabile, formale e strettamente determinato (come lo sarebbe un oggetto matematico) che non dipende dalle variazioni locali, dai punti di vista individuali, né tantomeno dalla coscienza degli attori. Nell’indagare la natura e l’esistenza delle strutture occorre considerarle come strumenti di conoscenza parziale, atti a ridurre la complessità dell’esperienza. Per non ricadere in forme metafisiche illusorie, è pertanto necessario che quest’ultima venga intesa come un paradigma teoretico e un metodo d’analisi tra i tanti possibili e non come un modello dotato di uno statuto universale e indipendente dai soggetti da essi determinati.


 Come già accennato, il lavoro di Changeux propone, basandosi su una contrapposizione molto originale per l’epoca, una visione dell’uomo fondata sostanzialmente sul cervello. Affinché questa sua definizione non venga considerata in maniera troppo deterministica, pericolo che lo stesso Changeux cerca fin da subito di scongiurare, è opportuno però chiarire che essa rappresenta soprattutto un primo tentativo di introdurre differenti prospettive nell’analisi di fenomeni così complessi come quelli legati al funzionamento della psiche. Entrambe le definizioni, sia quella di “uomo strutturale” sia quella di “uomo neuronale”, possono in effetti rischiare di proporre delle visioni dell’uomo troppo deterministe, una in senso culturale l’altra in senso biologico. L’uomo neuronale andrebbe invece considerato, dal punto di vista sociologico, innanzitutto una sorta di strumento concettuale utile a poter accogliere ed affrontare in modo adeguato la sfida lanciata dalle nuove scienze del comportamento umano (le neuroscienze, la sociobiologia, la psicologia cognitiva, il neoevoluzionismo, l’etologia) e consentire un dialogo costruttivo con gli approcci più tradizionali propri delle scienze umane e sociali.

Come ha recentemente ricordato lo psicologo Santo Di Nuovo, nel suo testoPrigionieri delle neuroscienze? [1], il pensiero di Changeux, sia nel dominio delle neuroscienze sia in altri ambiti, come ad esempio in quello della psicologia cognitiva, è un riferimento assolutamente imprescindibile. Ogni capitolo di questo suo saggio, riconoscendo una sorta di paternità alla tesi di Changeux, presenta infatti in epigrafe citazioni tratte proprio da L’uomo neuronale.

Il volume di Di Nuovo si propone di ripercorrere alcuni “momenti cruciali” del matrimonio tra le neuroscienze e la psicologia cognitiva. Cruciali in quanto rappresentano quelle fasi in cui è stata ravvisata la crisi di tale unione, e in cui si è palesata un’incomprensione tra i diversi ambiti disciplinari.

L’autore affronta pertanto argomenti legati dalla necessità di comprendere la complessità dei fenomeni connessi alla psiche e ai suoi aspetti biologici e sociali, ricorrendo ad epistemologie e metodologie molto articolate.

È in quest’ottica che egli s’interroga sul dualismo mente-corpo, di cartesiana memoria. Di Nuovo risolve la questione proponendo la tesi, sostenuta da diversi studiosi e non solo in campo neuroscientifico, che la mente possa esistere solo dentro e per un organismo. L’organismo umano, così inteso, non sarebbe altro che il risultato di una continua interazione tra corpo e cervello, e come è ben spiegato dal celebre neurologo Antonio Damasio, esso interagisce con l’ambiente come un insieme: l’interazione non è del solo corpo né del solo cervello. I fenomeni mentali possono essere compresi esclusivamente nel contesto dell’interagire di un organismo con il suo ambiente [2].

Per meglio comprendere tale questione, l’autore fa riferimento alle teorie della cosiddetta “embodied cognition”, le quali ci dicono che cognizione e pensiero non sono indipendenti dal corpo, ma piuttosto è il corpo che ne attiva e arricchisce le capacità cognitive, limitandone al contempo le attuazioni. Risulterebbe quindi difficile studiare il cervello separatamente dal corpo, isolandolo dalle interazioni con l’ambiente esterno. La mente umana, secondo tale approccio, non può essere pertanto compresa astraendo dalle specifiche relazioni sociali e storiche in cui è implicata. È nell’ambiente esterno che la mente trova le estensioni che le sono necessarie per la realizzazione dei processi cognitivi ed emotivi.

Le radici di una tale concezione possono essere agevolmente rintracciate nel pensiero del celebre massmediologo canadese Marshall McLuhan [3]. Quest’ultimo, come è noto, ha elaborato nel corso degli anni Sessanta del Novecento quella che può essere considerata la più celebre teoria generale della sociologia dei media. Per quanto concerne l’immagine dell’uomo che emerge dai suoi lavori è possibile a mio avviso sostenere che si tratti di un’immagine-cerniera tra l’uomo strutturale e l’uomo neuronale. Pur trattandosi di una teoria generale che può essere classificata come “determinismo tecnologico”, definizione che farebbe pendere l’immagine dell’uomo sottostante più verso un’ipotesi di tipo strutturalista (l’uomo sarebbe in questo caso considerato un soggetto-assoggettato al sistema tecnologico e, più nello specifico, al sistema dei media), c’è da considerare il fatto che la concezione antropologica di McLuhan sembra risentire molto degli studi che, già nel corso della prima metà del Novecento, tendevano a mostrare una trasformazione proprio in senso “neuronale”. Lo studioso canadese considera infatti gli strumenti e le macchine presenti sulla terra in quanto estensioni delle estremità e dei sensi dell’uomo: una pala è un’estensione della mano, così come il telefono lo è dell’orecchio e il cinema o la televisione sia della vista sia dell’orecchio. Ogni nuova tecnologia, una volta accettata, si trasforma in parte integrante dell’ambiente, rendendosi invisibile, e gli effetti della tecnologia non investono soltanto concetti e opinioni, ma anche e soprattutto i modelli della percezione umana, modificando gli stessi organi di senso di cui gli uomini sono dotati. “L’uomo mcluhaniano” – insomma – sembrerebbe un essere “neuronale” immerso e dipendente dal suo ambiente.

Analogamente, ma in un periodo precedente alla teoria mcluhaniana, lo stesso Karl Popper sosteneva qualcosa di molto simile nel descrivere l’evoluzione della cultura umana. In una sua celebre teoria egli sosteneva che, “così come l’evoluzione animale, procede in larga misura attraverso l’emergere di nuovi organi e della loro trasformazione, così l’evoluzione della cultura umana procederebbe, in larga misura, attraverso lo sviluppo di nuovi organi al di fuori del corpo esosomaticamente o extrapersonalmente” [4]. L’uomo, cioè, invece di sviluppare nuovi organi o di potenziare quelli esistenti, produrrebbe al di fuori di sé strumenti che gli consentono un migliore adattamento all’ambiente circostante. Ciò che egli produce non sarebbe altro che estensioni delle sue componenti e facoltà interne. Ad esempio, invece di sviluppare occhi e orecchie migliori, egli produce occhiali, microscopi, telefoni; invece di sviluppare gambe sempre più veloci, produce automobili. L’uomo, in sostanza, sembrerebbe sopperire alle sua carenze istintuali attraverso la cultura e i suoi prodotti materiali e immateriali.

Santo Di Nuovo, nel suo saggio, analizza inoltre quello che ritiene essere il contributo evolutivo delle emozioni e il supporto che le neuroscienze possono fornire alla psicologia nella comprensione di tali tematiche. Il suo lavoro provvede a una rilettura di alcune patologie psichiche, rintracciandone le radici biologiche e sociali; e ancora mette in discussione il primato della genetica alla luce della più recente corrente dell’epigenetica, interna alla disciplina stessa, che ne fornisce un superamento, in un’ottica di tipo non deterministico. La parte centrale del suo lavoro è dedicata alle varie applicazioni delle neuroscienze a diversi ambiti di interesse, illustrandone potenzialità e limiti.

I limiti di un’applicazione tout court delle acquisizioni in ambito neuro-scientifico, sono affrontati da questo studioso anche per tutte quelle discipline che in una ridefinizione di se stesse antepongono il suffisso neuro alla denominazione originaria (neuro-economia, neuro-estetica, neuro-marketing, neuro-politica, neuro-teologia). Si costituiscono nuove discipline dall’intersezione tra antiche conoscenze e i nuovi saperi sul funzionamento del cervello. Queste nascenti discipline ipotizzano che la localizzazione della formazione di alcuni pensieri – grazie alle neuroimmagini – determini la risoluzione dei problemi in economia, o che si scoprano le radici della religiosità o dell’etica, sino ad arrivare alle motivazioni del voto politico.

A tal proposito Di Nuovo invita ad una riflessione approfondita per non incorrere in quelli che egli definisce “neuro-abusi”. È il caso della neuro-etica, che cerca di comprendere cosa accade a livello cerebrale quando un individuo si trova dinanzi a una scelta di tipo morale. L’autore evidenzia in tal caso la discrepanza che sussiste tra i meccanismi meramente neurobiologici e il funzionamento della persona nel mondo. Di Nuovo riesce a sintetizzare il pensiero di alcuni autori condensando in poche parole tale discrepanza: “I cervelli – egli scrive – sono congegni automatici, governati da regole e determinati; invece le persone sono agenti personalmente responsabili, liberi di prendere le loro decisioni personali” [5]. Questo sempre tenendo presente che se, come dimostrano alcuni studi neuroscientifici sul mind timing, la consapevolezza delle intenzioni di agire si realizza solo dopo che sia stato avviato il comando cerebrale dell’azione, ciò non implica necessariamente che nel comportamento umano non siano possibili l’esercizio del libero arbitrio e la responsabilità. Nel processo decisionale esiste sempre e comunque la possibilità di distaccarsi dai vincoli delle predisposizioni emotive e automatiche, per considerare la possibilità di agire in base a valutazioni sull’adeguatezza morale.

Dunque anche nella spiegazione del comportamento morale non può bastare riuscire a individuare la rete neurale implicata nella connessione tra circuiti cognitivi ed emotivi. Bisogna sempre tener conto del fatto che i meccanismi neurobiologici appartengono ad un corpo che, come abbiamo già ricordato, ha una storia sia biologica sia sociale.

Un intero capitolo del lavoro di Di Nuovo è poi dedicato, invece, alla frontiera più recente del Diritto, che vede l’applicazione degli studi neuroscientifici soprattutto in fase processuale. Le argomentazioni conclusive di Di Nuovo convergono con quanto sostenuto dallo psicologo Alberto Oliverio: “né analisi genetiche né brain imaging sono in grado di apportare contributi decisivi alla verità processuale, e di darci una fotografia decisiva della mente di una persona […] senza un inquadramento psicologico si rischia di affidarci troppo a prove scientificamente obiettive che vanno invece valutate in un contesto più ampio.” [6]

I problemi che vengono trattati nel testo sono dunque molteplici, a dimostrazione del fatto che sarebbe sempre opportuno non utilizzare visioni eccessivamente riduttive di tale complessità. A tal proposito trovo sia interessante il modo in cui viene affrontato il discorso sulla coscienza nel capitolo ad essa dedicato.

Come è noto, quella della coscienza è sempre stata una tra le più controverse questioni della storia del pensiero occidentale, in ambito sia speculativo sia applicativo. Oggetto d’analisi della psicologia sin dalle sue origini, anche le neuroscienze si sono avvicinate a quest’ambito di ricerca, proponendo una prospettiva particolarmente originale. Rispetto alla questione della coscienza l’autore opportunamente ritiene sia innanzitutto necessaria una convergenza tra neuroscienza e psicologia, al fine di riuscire a conoscere “un po’ in più e un po’ meglio” il fenomeno.

Il contributo delle neuroscienze ci dice che la coscienza funziona come proprietà risultante dall’interazione di specifici neuroni. Tale coscienza è di tipo materiale, l’autore riporta i risultati di alcuni studi che dimostrano l’esistenza di uno stadio di coscienza percettiva già a partire dai primi cinque mesi di vita del neonato. Le neuroscienze ci invitano a riflettere sul fatto che la consapevolezza di sé è soggetta a svariati automatismi e che per riuscire a comprenderla sia necessario liberarsi da pregiudizi filosofici o psicologici. L’autocoscienza (definita dai neuroscienziati “esperienza interna”) è il risultato di un interscambio tra rete neuronale ed eventi cerebrali. Ciò che si verifica è una serie di scambi, di segnali fra gruppi neuronali connessi tra loro in un’interazione dinamica. Il che implica che l’autocoscienza non si sostanzia in una parte delimitata del cervello, e che pertanto non può essere intesa come un oggetto ma bensì come un processo, non localizzabile in moduli distinti e specifici, ma in una rete. È possibile scansionare le strutture neuronali di un organismo mentre essa esperisce qualcosa, ma ciò descrive esclusivamente stati di popolazioni di neuroni e non l’intenzionalità o l’esperienza qualitativa. Abbiamo una mappa ma non ne conosciamo il significato. Abbiamo una mappa ma ne ignoriamo la legenda. È il sé consapevole a richiamare i significati, i vissuti, la relazione interpersonale e sociale. La coscienza può dunque essere studiata solo se la si considera un sistema aperto in continuo dialogo con l’ambiente circostante. “La coscienza – come egli scrive – è estesa e dinamica: allargata al mondo, e in continua interazione con esso, nello spazio e nel tempo.” In questo senso l’autore evidenzia come lo studio della coscienza costituisca una lezione e insieme un banco di prova epistemologico.

In sostanza il lavoro di Di Nuovo si presenta come un utile manuale di riferimento per cogliere i legami tra discipline differenti che si interrogano però sul medesimo tema. È un buon laboratorio sperimentale. Con una scrittura scorrevole e incisiva l’autore veicola l’idea che nella determinazione del comportamento umano, sia in condizioni di normalità sia in condizioni alterate patologicamente, i fattori chiamati in causa sono sempre di diversa entità: genetici, psicologici e ambientali. Per riuscire dunque a fornire una conoscenza della mente, per comprendere la complessità dei fenomeni connessi alla psiche e ai suoi aspetti biologici e sociali, è dunque necessario un dialogo tra le discipline che s’interessano all’analisi di tali fenomeni.

Più specificatamente l’autore si occupa del possibile dialogo fra neuroscienza e psicologia. Tale approccio, seppur ricco di spunti, risulta essere a mio avviso ancora non del tutto esaustivo, in particolare a causa della limitata attenzione ai possibili molteplici contributi che le discipline sociologiche potrebbero fornire a tali studi. L’autore stesso, in un passaggio del testo, riconosce d’altra parte come “la mente” non si esaurisca e non possa essere confinata “dentro il corpo individuale”, e come in realtà essa coincida con l’insieme delle relazioni storico-sociali che quel corpo intrattiene con il suo ambiente . Quale disciplina se non la sociologia potrebbe rendere più chiara l’analisi di tali relazioni storico-sociali?

Il punto è che bisogna si tener conto delle innovazioni teoriche apportate da questo recente campo di studio (neuroscienza) nella comprensione del comportamento umano, ma senza perdere quanto di specifico ogni altra disciplina connessa allo studio dell’uomo possiede. Ognuna delle discipline prese in considerazione dovrebbe portare nel dialogo una parte di senso; solo così è possibile un maggior approfondimento della conoscenza dei fenomeni indagati. La sociologia della conoscenza, ad esempio, potrebbe consentire una comprensione più adeguata di come l’uomo utilizzi dei concetti specifici per comprendere il mondo circostante, e di come tali concetti plasmino la percezione che egli ha di se stesso e del mondo che abita, in un processo continuo di co-produzione dialettica tra individuo e società. La ricerca scientifica è infatti sempre alimentata da determinate visioni del mondo che fanno da scenario a possibili ipotesi di ricerca. Delineare scenari è compito della sociologia. Affinché sia auspicabile una pluralità di linguaggi, l’uomo dovrebbe abbandonare l’idea di se stesso come di un’entità dotata di un’anima, di uno spirito o di una mente disincarnata, e cogliere che la sua esistenza è realizzabile solo ed esclusivamente nella relazione. Senza relazione non ci sarebbe alcun cervello e dunque alcun uomo per come lo conosciamo. La sociologia potrebbe in tal senso innanzitutto fornirci degli scenari teorici di riferimento entro cui poter collocare l’uomo, una rete in cui inserirlo, all’unisono origine e estensione, della sua esistenza.

Per riuscire a riformulare alcune teorie di fondo utili all’analisi del comportamento umano, senza trascurare l’importanza di un approccio che tenda a valorizzare il contributo degli studi evoluzionisti, sarebbe pertanto opportuno adottare una prospettiva che si ponga l’obiettivo di studiare l’evoluzione bioculturale umana nei diversi contesti ecologici, cercando di evitare di cadere in determinismi bio-genetici da una parte o socio-culturologici dall’altra. Sposare tale prospettiva d’indagine ci fornirebbe la possibilità di escludere in partenza l’accettazione preconcetta di ogni eventuale forma di determinismo, facilitando l’adesione a un programma di ricerca multidisciplinare.

Uno degli artefici di questo tipo di proposta teorica è il filosofo Telmo Pievani. Egli ritiene che una delle parole-chiave fondamentali per questo tipo di ricerca sia quella di contingenza.“Contingenza – egli scrive – è l’antidoto di cui abbiamo bisogno per trovare un modo alternativo di narrare l’evoluzione, più fedele alle scoperte recenti e liberato da ingenui adattazionismi [...]: per un chiodo allentato il cavallo perse il ferro, il messaggero non arrivò in tempo, la battaglia volse al peggio, e l’impero crollò. Ciò che lega il chiodo all’impero non è il puro caso, perché magari l’impero aveva le sue ragioni per crollare comunque, in un modo o nell’altro. È piuttosto la contingenza, cioè il potere che hanno alcuni eventi singolari di deviare il corso della storia, l’incontro accidentale di catene causali indipendenti [...]”. [7]

Ai fini di un approccio multidisciplinare, l’approccio proposto in questi termini da Pievani appare oggi, a mio avviso, una chiave di lettura che offre una serie di spunti di straordinaria originalità.

Note

  • [1] Santo Di Nuovo, Prigionieri delle neuroscienze?, Giunti, Firenze 2014
  • [2] Antonio Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995.
  • [3] Cfr., ad esempio, Marshall McLuhan, Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Armando, Roma 1976
  • [4] Karl .R. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Armando, Roma 1983, p. 73
  • [5] Di Nuovo (2014), cit., p. 137
  • [6] Di Nuovo (2014), cit., p. 105
  • [7] Telmo Pievani, Evoluti e abbandonati. Sesso, politica, morale: Darwin spiega proprio tutto? , Einaudi, Torino 2015, p. 225