1.12.16

Il vuoto abbagliante dei futuri fantasma


Altri esiti del postumano
Cinque fotografie. Cinque immagini di bunker sotterranei di cemento e metallo, resi alla vista da una luce fredda e lancinante. Bunker che dovevano servire come rifugi antiatomici alla Nato di Bagnoli. Li immaginiamo stipati di provviste alimentari, di brandine, di rifornimenti di tutto ciò che poteva essere necessario nel caso di un attacco atomico. Senza ombre, perché non ci sono oggetti a riempirne gli spazi.

Bunker vuoti metafore di uomini senza narrazione del sé
Luoghi vuoti, ormai morti, perché – a quanto sembra, o sembrava – la loro funzione è... dismessa. Sono archeologia... industriale? No, piuttosto, della paranoia travestita da prudenza e programmazione, in perfetto stile militare.

Just in case...
Non dissimili, solo molto più capienti, di quelli che la propaganda americana consigliava in patria di costruire nel cortile di casa e che l'industria pubblicizzava, mentre a scuola a ragazzini e ragazzine veniva insegnato come difendersi nel caso di fall-out nucleare (Signori, Documentari del non-vero, la propaganda durante la guerra fredda, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero12/03mappe/q12_giorgio_guerrafredda_01.htm ) e gli scrittori di fantascienza si esercitavano nell'esplorare le possibili declinazioni del "mondo del giorno dopo"...


Residui della "guerra fredda", quella che non è mai diventata "calda" nelle metropoli del mondo, preferendo prudentemente, i potenti della Terra, di giocarsela nelle periferie, nei paesi più disperati del pianeta – rendendoli ancor più disperati e poveri.

Étienne Jules Marey
Pure, se aguzziamo lo sguardo, possiamo intravvedere delle figure – fantasmatiche, quasi degli ectoplasmi, come quelli "evocati" nelle foto di Étienne Jules Marey, agli albori della sperimentazione sull'immagine in movimento – apparire in controluce, come sagome rivelate dal pulviscolo impegnato eternamente nel suo moto browniano. Gli spettri dei soldati che immaginiamo li abbiano frequentati, esercitandosi alla guerra, mentre la guerra non c'era.

Progettati e costruiti perché gli uomini potessero prepararsi a popolare un futuro postatomico, ora sono solo dei residuati, artefatti passati di un futuro scartato, divenuto inattuale attorno al 1989, ma che ogni tanto ci dicono – per pessimismo o semplice prudenza – occhieggia comunque, a intermittenza, da dietro un angolo della nostra immaginazione e delle nostre angosce.
Perché le guerre non sono finite, hanno solo preso nuove articolazioni. Confinate comunque nelle periferie dei vari imperi attuali, hanno preso l'abitudine di venirci a trovare in casa, almeno dall'11 settembre 2001. E non è detto che prima o poi i loro oscuri araldi non alzino il tiro, ricorrendo alle armi più estreme. O almeno, questa è la percezione che molti di noi hanno dei rischi che ci riserva il futuro.

Monito
Insomma, questi bunker colti dal fotografo Aniello Barone e raccolti in Default, sono dei veri e propri monumenti ad un'idea cupa e ossessionata di un recente passato, che per Barone funzionano come monito anche rispetto al futuro prossimo, e non solo perché ci ricordano la possibilità della distruzione totale dell'umanità. Quasi a marcare un presente ormai definitivo, fissato in un unico istante, quello di un pericolo assoluto, non svanito, ma bloccato in un eterno istante, in un mondo in cui il tempo si è definitivamente fermato, a qualche minuto dalla mezzanotte, come in una famosissima foto, quella dell'orologio dell'apocalisse: http://motherboard.vice.com/it/read/per-il-doomsday-clock-l-umanita-e-a-3-minuti-dall-apocalisse .

Perché secondo il fotografo napoletano questi bunker algidamente asettici, nello loro luminosità astratta, iperreale, vacua, si propongono come metafora delle identità contemporanee nella loro primitiva, assoluta natura: illuminate a giorno come i rifugi antiatomici fotografati da Aniello Barone, dichiarano apertamente che il non è altro che un vuoto, un luogo immaginario, un costrutto sociale – un concetto utile per ragionare sulle nostre vite, le nostre azioni, le nostre memorie.

Secondo il fotografo – e qui si può essere o meno d'accordo – la metafora che propongono i bunker delle foto è quasi letterale, nel senso che i nostri Sé, i nostri inconsci sono davvero svuotati, pieni solo di aggressività, paranoia, violenza, lo sfogo delle quali – e di cui avvertiamo gli spettri ancora presenti nelle foto – era alla base del concepimento e della costruzione dei bunker stessi. Saremmo uomini senza narrazione del sé.

L'orologio dell'Apocalisse
Vero, il Sé, di per sé (!) non esiste: è un luogo vuoto, un utile escamotage architettato dagli studiosi di scienze sociali per dare un nome alla consapevolezza di se stessi, per immaginare una qualche collocazione al dialogo con se stessi in cui gli umani sono continuamente impegnati. Ma questo vuoto viene occupato incessantemente dalla percezione degli eventi che ci riguardano e delle sensazioni che producono in noi, e che finiscono per diventare ricordi, per formare la nostra narrazione di noi stessi, la nostra memoria, la nostra identità. Immaginare quest'ultima vuota significa immaginarci nel migliore dei casi come esseri che vivono in un eterno presente, fatto di fugaci attimi che svaniscono man mano che ne appaiono di nuovi, in una continua, ininterrotta successione...

Ansia vicino casa
Sicuramente, rispetto alle identità solide, integrate, compatte cui ci aveva abituato la Modernità al suo apice, quella dei miti del progresso, della libertà, dell'affermazione di sé, in cui tutti guardavano in prospettiva al futuro e sentivano di poter programmare la propria vita, le cose sono cambiate: viviamo in tempi frammentati, "liquidi", fragili – e le nostre identità seguono la stessa direzione. Sono tempi di disorientamento, di disincanto, di perdita degli ancoraggi e delle certezze. E di paure, ansie, angosce senza nome, senza motivi riconoscibili. Tempi in cui la depressione è diventata la forma di disagio mentale più diffuso al mondo, come scrive Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi (Einaudi, Torino, 1999). Angosce cui dobbiamo dare senso – come sono da sempre abituati a fare gli umani. Così ritorniamo sulla paura più devastante e feroce, quella dell'annichilazione, dell'Apocalisse. Forse il senso più vero da dare al termine "postumano" è qui, in questo vuoto di senso, in questa disincantata attesa della fine.